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Fra i libri che mi hanno regalato le amiche per il mio compleanno, mi fa piacere segnalarvi: Ines dell’anima mia di Isabella Allende, una storia vera che l’autrice ha ricostruito in 4 anni di ricerche storiche. La protagonista Ines parteciperà alla conquista del Cile con altri condottieri nel 1580, partendo dalla Spagna per fondare in seguito la prima città cilena Santiago del Cile. È una donna capace di tutto e gli uomini impareranno a rispettarla. Una pagina di storia raccontata al femminile, non per questo priva di atrocità terribili, ma nel contempo con un taglio umano e molto sottile. Una donna protagonista nella Storia. Una donna innamorata, capace di affrontare un mondo decisamente maschilista.

Altro libro che vorrei segnalarvi è: La cuntintizza scritto a due mani da Simonetta Agnello Hornby e sua nipote Costanza Gravina. Un libro leggerissimo, pieno di aneddoti, storie e ricordi di giardini, di terrazzi di cucine e cibi profumatissimi. Durante tutta la lettura, anche se chi legge viene da realtà diverse dalle loro, è tutto un susseguirsi di ricordi, un piacere nel rituffarsi nei profumi della propria infanzia, un gioco alla scoperta di situazioni particolari che ognuno di noi ha vissuto. E sé non fosse stato per le rane che saltano non avrei ricordato Simonetta Agnello e Costanza Gravina con il loro libro: La cuntintizza.

Sono le 11 del mattino e nel porto di Menthana il sole splende e il meltemi si è finalmente affievolito dopo 7 giorni che soffia prepotente. Ora alcune imbarcazioni salpano, altri personaggi si avviano a piedi alle varie spiagge con borse e cappellini. Davanti alla barca Felicità due ragazzine: Eva e Cristina , un maschietto Aris e la nonna (in greco iaia’) Filomena si apprestano a salire a bordo, hanno con loro dei fogli di carta bianchi che una volta piegati e ripiegati a dovere, diventeranno delle rane che saltano. Inizialmente c’è un po’ di confusione: trovare il posto giusto attorno al tavolo nel pozzetto, togliere i fogli di carta dalla cartellina, e poi è stato tutto uno spiegare, fare vedere, provare con loro e poi controllare quando piegavano da soli, ripassare ben le piegature con l’unghia. Le loro voci si accavallano le loro richieste sono pressanti, Filomena chiede la calma ma le sue mani vanno frenetiche ad aiutare Cristina, Eva ed Aris, e ci si mette anche il meltemi che fa volare alcuni fogli. “Adesso pieghiamo per ottenere le zampette, così, bravi, ma il corpo non va ancora bene, lo assottigliamo così”, “così? Va bene?” “ Si, si,” e “la mia rana va bene?” “Si! Si! Siete bravissimi.” Il piano del tavolo brulica confusamente, sembra in movimento, in più il vento fa volare la carta, le mani si destreggiano, piegano, si allungano, schiacciano, i ragazzini sono contenti, la rana prende forma, ma… ancora non salta. Poi, dopo l’ultima piegatura faccio saltare la mia rana e immediatamente anche loro provano, e… assieme gridano per la felicità, loro si agitano, si alzano, le rane saltano da tutte le parti, si incrociano, si scontrano, fanno capriole, cadono dal tavolo, volano per il meltemi, Cristina, Eva ed Aris sono eccitatissimi, non smettono di provare e riprovare, ridono contenti, è un momento di gioia e felicità. Il loro lavoro li ha stupiti e soddisfatti. A questo punto spuntano i pastelli e la fantasia dei ragazzi è impagabile, io mi ero sempre limitata a punteggiare il dorso della rana, loro invece nel colorarle esprimono tutta la loro fantasia.

Insomma tutta questa “ cuntintizza” per me è stata veramente un momento di puro piace, e anche Filomena, la iaia’, se pur sudata, ha un’ espressione contenta. E pensare che abbiamo solo piegato dei fogli di carta.

  Il primo motivo per cui ho scelto di leggere questo romanzo è perchè me lo ha suggerito la mia amica Monica, per cui ero  certa di andare a colpo sicuro. Il secondo motivo è perché ho da poco tempo una nuova amica taiwanese e avrei voluto saperne di più sulla Cina, pur avendo già letto altri libri tra cui “Cigni selvatici, tre figlie della Cina” romanzo memorabile di Jung Chang. In questo caso mi interessava  sapere cosa scrivessero le nuove generazioni di autrici  cinesi e Karoline Kan, con il suo romanzo: “ Sotto cieli rossi” Diario di una millennial cinese, ha soddisfatto molte delle mie curiosità ed è andata oltre le mie aspettative.  L’autrice nelle prime 4 pagine, ci da una precisa cronologia storica, che non guasta mai, sulla Cina dagli anni 1945 fino ad oggi. Poi passa a raccontare della sua vita prima che venisse al mondo, dando un quadro completo di quello che succedeva ai suoi genitori negli anni ‘80 in cui la faceva da padrona la politica del figlio unico. La protagonista di questo romanzo  è una secondogenita, con tutte le conseguenze del caso e vivrà costantemente con la paura di essere portata via dalla polizia. Governo, funzionari, commissioni, autorità, poliziotti, regole, divieti, obblighi, popolano i 18 capitoli di questo romanzo ma Chaoqun, vero nome dell’autrice di questa storia autobiografica, che vuol dire fuori dal coro, ha alle sue spalle generazioni di donne non da poco. Si legge a pag. 47: Più tardi, quando mia madre mi raccontò dell’incrollabile supporto ricevuto da Guiqin, rimasi sorpresa solo in parte. Le donne della mia famiglia quelle da cui discendo anch’io, sono così: ostinate. Mi hanno spronato ad andare avanti, risoluta e senza paura, proprio come hanno dovuto fare loro per permettermi di esistere.  Ed è con questo spirito  che la narrazione prosegue, anno dopo anno, avvenimento dopo avvenimento: trasferimento, scuole, nuovi vicini, lavoro. Ma sono anche un fiume di particolari, di impressioni, di profumi, di colori, di paesaggi mai uguali che arricchiscono questo racconto così accorato e drammatico, così reale ma nel contempo pieno di sogni.   Non è poi così difficile immedesimarsi con la piccola Chaoqun quando si nasconde per la paura, fa tenerezza,  anche se il contesto è diverso dal nostro, la paura dei bambini è sempre tragica. La  osserviamo adolescente, oberata dai compiti di studentessa, impegnatissima per raggiungere il traguardo, ma ha anche il tempo per farsi  domande e darsi risposte che a volte non le piaceranno, e infine la ritroviamo adulta,  alle prese coi genitori  che contesta. Come non volerle bene, come non tifare per Lei, così apparentemente fragile in un mondo così granitico. Ogni pagina andrebbe  riletta per poterla assaporare meglio. Miriadi di storie, di aneddoti, descrizioni di vecchie pettegole, e integerrime funzionare.    Leggere oggi, nel 2021 tutte le vicissitudini di Karoline Kan mi ha fatto trasalire più volte, la sua data di nascita 1989 corrisponde alla rivolta degli studenti in piazza Tienanmen con le conseguenze che tutti conosciamo ma che ancora oggi il governo cinese rifiuta di commemorare. Ma il 4 giugno del 1989 quanti anni avevo io? Cosa facevo? Come avevo vissuto quella notizia? Non me lo ricordo chiaramente, ma leggerlo in questi giorni da un libro ha avuto su di me un effetto dirompente, ho riletto date ed episodi, le condizioni drammatiche di un intero popolo con la Grande Carestia, la tragedia delle donne, corruzione, ingiustizie, e la voglia di riscossa. Ho ritrovato Mao Zedong, di cui mi parlava mio padre da bambina. L’avvento della Rivoluzione Culturale, le guardie rosse che impazzano nel 1966; io forse in quegli anni  avevo il primo fidanzatino, lo so che la cosa non interessa  nessuno, ma volevo dire che la Storia va avanti anche se noi dormiamo. E ancora: Deng Xiaoping, La SARS nel 2002 e in fine Xi Jinping, attuale presidente in carica. Rileggere oggi la Storia che mi è scivolata addosso senza coinvolgermi troppo perché lontana, mi ha confusa e amareggiata. Oggi forse è diverso perché sono adulta, perché la Cina e altri paesi non sono più così lontani. Ancora una volta la lettura di un libro mi ha aiutata a comprendere meglio alcune realtà, non solo curiosità, non solo Storia, ma anche comprensione. Tutto molto  al di là delle mie aspettative.   Scrive Karoline: Per comprendere la Cina e i cinesi è necessario immaginarsi qui, chiedersi come ci si sarebbe comportati al posto delle famiglie di questo libro, che alle spalle avevano determinate tradizioni politiche e culturali. E’ molto più facile biasimare la Cina che capirla davvero, è più facile giudicare i cinesi che tentare di conoscerli. Ma sono certa che la ricompensa per chi ci prova sarà grande, tanto quanto il rischio per chi rinuncia. Be… se volete anche Voi  la ricompensa, non mi resta che augurarvi 297 pagine di strepitosa lettura.

Mi piacerebbe parlare di questo libro con una mia amica, senza rivelargliene la trama, senza insistere sui personaggi principali, senza calcare la mano sulle evidenze. Mi piacerebbe dirle: “ È bello, leggilo, poi ne parliamo”.

Mi piacerebbe che anche alla mia amica piacesse riflettere su quello che ha letto e le venisse voglia di commentare, discuterne, di approfondire, di raccontarmi in quali punti del romanzo si è sentita completamente estranea o al contrario coinvolta. Quando ha sentito quella scossa che le ha fatto fare un salto, un salto che l’ha portata più avanti, o quando si è vergognata di appartenere alla razza umana.

Sono questi tipi di romanzi che mi fanno venire voglia di scriverne, condividerne i contenuti e soprattutto di conoscere che effetto abbiano fatto a voi. Mi piacerebbe farvi venire voglia di leggerlo e se lo avete già letto mi piacerebbe leggere i vostri commenti.

Portare… Farsi portare… Essere dentro… Sentire… La Mazzantini ci accompagna nel suo romanzo che è una storia di guerra e di amore, un amore strano e imperfetto da sembrare vero, è un presentarci etnie diverse, farcele conoscere quando vivevano in pace fra di loro, e dopo, durante la guerra . Molte volte, leggendo questo bel romanzo: “venuto al mondo” l’emozione mi è salita da dentro e si è fermata in gola formando un nodo che mi impediva di deglutire. I pensieri invece correvano veloci e scuri: terribile, atroce, angosciante, disumano. La Mazzantini mi ha portato in guerra, mi sono sentita in guerra, una guerra di cui avevo già letto e seguito in tv, una guerra che se pur vicina mi aveva trovata distante. Solo qualche zingara con la sua nenia: “ Vengo da Bosnia… aiutatemi” mi aveva fatto vergognare di non fare nulla.

Gemma è la protagonista di questa storia che si intreccia più volte: il presente con il passato, Roma con Serajevo. I mariti con gli amici, i tempi di pace con i tempi di guerra. Si affanna, lavora, si innamora appassionatamente di Diego, fotografo scapestrato; lo troveremo vivo e attivo sotto il tiro degli snipe a Serajevo e depresso a Roma con una scatoletta di tonno che ha fotografato per tutto il giorno. Poi… per Gemma… quella maternità sofferta, cercata a tutti i costi. E si troverà di nuovo sola e disperata, ma un uomo dell’Arma la proteggerà. In questo romanzo le persone anziane sono pennellate lievemente, senza eccessi, senza protagonismi, pennellate che comunque lasciano il segno. Mi sono commossa pensando al senso di colpa di una donna anziana che era ancora viva, quando tanti bambini erano già morti. Quando un anziano signore, dopo essersi vestito di tutto punto si è incamminato verso la sua università; il rispetto della moglie nei confronti della sua decisione, la loro complicità, il loro amore. Il romanzo, nonostante la guerra e tantissimi morti è pieno di amore, quasi a pareggiare i conti. I pensieri di Gemma, le riflessioni, i segreti, quello che vorrebbe dire, fanno da cassa armonica a tutto il racconto che prende un respiro o un affanno diverso ad ogni nuova situazione. È questo e molto altro il romanzo della Mazzantini che fino alle ultime pagine ti sorprende.

Più che un riassunto ho voluto raccontare cosa suscita questo romanzo, cosa ti lascia, le frasi che non vorresti dimenticare, le situazioni che mai avresti pensato di vivere e quelle che invece pur non appartenendoti ti fanno riflettere. Possibilità nuove, fuori dai tuoi orizzonti. Mi si è aggiunto un pezzo di mondo.

Dalla quarta di copertina:

Una mattina Gemma lascia a terra la sua vita ordinaria e sale su un aereo, trascinandosi dietro un figlio, Pietro, un ragazzo di 16 anni………


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Premessa Storie di un altro mondo. Lo scorrere del tempo ha interrotto le tradizioni. Adalgisa non era una donna bella e nemmeno affascinante in compenso era bassina ma… di sicuro aveva delle virtù nascoste perchè un bel giovanottone con bei mustacchi si innamorò di lei vedendola recitare sul palcoscenico. Si sposarono. Nacquero: Elettra,Tina, Cesarina, Yolanda, Oreste ed Eligio. Tina, che molto aveva preso dal padre (meno i mustacchi) fece perdere la testa, con la sua grazia e la sua bellezza a Nino, un tappezziere di Venezia che fra il pubblico era quello che più forte l’acclamava. Si sposarono. Nacquero: Luigi, Carla, Marinella. Marinella, a cui non piaceva recitare, tutte le sere in prima fila, per parecchi mesi, riceveva applausi, complimenti e baci volanti da Carlo. Si sposarono. Nacquero: Luciano e Antonia. Antonia, ignara di interrompere una tradizione che continuava da tre generazioni ha conosciuto il suo futuro marito a casa di amici e non ha mai recitato se non all’asilo! Per rimediare a queste mancanze e per rispetto alle sue ave era anda a teatro con Enrico moltissime volte, grazie anche agli ingressi gratuiti elargiti dal vario parentado e soprattutto grazie alla nonna Tina che le aveva trasmesso l’amore per il teatro. Il piacere dell’ascolto e la magia del farsi coinvolgere, piano piano e senza che se ne accorgesse, fino a trovarsi immersa in altri mondi. —————————————————————————————————————————- Oramai me lo aspettavo, succedeva quasi sempre, le differenti reazioni dipendevano dall’umore, dal carattere o dalla personalità dell’impiegato di turno che mi rivolgeva la classica domanda: ” Data e luogo di nascita”. Io rispondevo scandendo bene numeri e lettere: “5 del 5 del 50, a Portula”. Alcuni si soffermavano sulla data reputandola: facile da ricordare, uguale a quella di qualche parente o amico oppure declamando “Ei fu. Siccome immobile,” i più spicci, alzando lo sguardo verso di me si limitavano ad esclamare: ”Napoleone”. Altri, fortunatamente, trascrivevano la data senza commenti ma… nessuno, proprio nessuno capiva bene il nome della città che puntualmente storpiavano ripetendomela interrogativamente: ” Protula? Potula”?No, Portula”. E quasi a giustificare e rendere il più veritiero possibile il nome del comune in cui ero nata mi affrettavo ad aggiungere: ”In provincia di Vercelli, anzi, adesso in provincia di Biella. Meno male che nessuno voleva sapere “dove” proprio fossi nata. La cosa mi avrebbe imbarazzata non poco, anche se negli anni 50 non era così scontato nascere in ospedale, anzi era abbastanza comune partorire in casa, magari facendosi assistere da un’ostetrica o anche senza. Naturalmente nel giro dei familiari e per il resto della compagnia la cosa era risaputa. Mia cugina Elettra, per esempio, che era maggiore di me di 5 anni, quando fu più grande mi raccontò più volte che quel giorno era molto arrabbiata perché quando era arrivata lì per conoscere la nuova cuginetta la cicogna era appena andata via e lei non aveva fatto in tempo a vederla. Si era consolata osservandomi e decretando davanti a tutti:”Quasi quasi è più bella di me”. Non che fossero in tanti lì dentro, c’erano: mia mamma Marinella (nome d’arte Mannussi) che aveva in braccio me, Antonia appena nata, Carla,(nome d’arte Kyky) sua sorella e mamma di Elettra, l’ostetrica (confermato dall’atto di nascita che avrei letto 65 anni dopo) e naturalmente Tina, mamma di Marinella. Era stata lei a darsi un gran da fare quando suo genero Carlo le aveva scritto al fermo posta di Portula spiegandole che Marinella, in stato avanzato di gravidanza, sarebbe arrivata in Piemonte da lei per partorire. Inoltre l’aveva informata che quella decisione era per il bene del futuro nascituro affinché nascesse nell’Italia settentrionale e non in un’ isola del sud, dove lui lavorava e risiedeva con il resto della famiglia. Otto anni prima Carlo si era innamorato di Marinella vedendola recitare sul palcoscenico. Aveva poi seguito lei e tutta la compagnia teatrale “di piazza in piazza” facendole una corte serrata. Marinella vedeva in Carlo la possibilità di realizzare il suo sogno: allontanarsi definitivamente dal mondo del teatro che detestava e formare una famiglia con un uomo che non appartenesse al mondo dello spettacolo. Carlo invece ne era affascinato ma lei che dalla madre aveva ereditato la fermezza si rifiutò di accettarlo come marito finché non avesse trovato un posto di lavoro. Andò diversamente, l’amore prevalse sulla fermezza e si sposarono di li a poco, ancora in tempo di guerra e fecero il viaggio di nozze sul lago di Como. Il lavoro Carlo lo trovò in Sardegna un anno dopo e Marinella poté così coronare il suo sogno: una casa e il primogenito Luciano che nacque a Bergamo, sotto un bombardamento e sotto la protezione della nonna Tina che in quel periodo era lì con il resto della compagnia teatrale itinerante. Dopo sette anni Marinella prese per mano Luciano e rifece un lungo viaggio: prima in pullman, poi in traghetto e in treno. Arrivò dalla Sardegna a Portula in Piemonte, da sua madre, per partorire di nuovo. Per nonna Tina un problema in più, ma lei, nelle difficoltà aveva sempre trovato lo sprone per non mollare. Da lei dipendevano le sorti delle diverse famiglie che recitavano nella compagnia che lei dirigeva, era responsabile dei testi teatrali che venivano scelti ed era sempre lei che prendeva i contatti con le persone importanti dei nuovi paesi dove pensavano di recitare. Il loro repertorio spaziava dalla “Signora delle camelie“ alle “Due orfanelle”, Dalla “Fiaccola sotto il moggio”, alla storia di qualche santo. La scelta era dettata dalla piazza e dagli umori dei cittadini. Non sempre le città disponevano di un teatro e allora c’era da montare il loro, di teatro. Oppure, Tina contattava il Parroco per ottenere la sala dell’oratorio. C’ era da capire come la pensasse il sindaco o informarsi immediatamente su chi fosse il nuovo podestà. Da sempre Tina era supportata dal marito Antonio (nome d’arte Nino) e da tutta la compagnia. Gli attori e le attrici erano anche: elettricisti, addetti alla biglietteria, falegnami, pittori, trovarobe, rumoristi, sarte, suggeritrici, guardarobiere. La sera, dietro le quinte, chi non era di scena controllava il sonno dei bambini, i più piccoli dormivano nelle ceste e i più grandi su materassi improvvisati. I tempi di riposo andavano rispettati perché al mattino i bambini della compagnia teatrale frequentavano normalmente le scuole pubbliche. Ogni piazza un cambio di scuola, di maestre e di compagni di classe. Non erano mai indietro nel programma “i figli dei comici” come li chiamavano gli indigeni, conoscevano la matematica, le scienze, si cimentavano nella bella calligrafia, la geografia la conoscevano anche per averla vissuta sul campo, città dopo città, fiumi, pianure e appennini, avendo percorso in lungo e in largo tutta la penisola. Se si fermavano in una piazza per parecchio tempo riuscivano anche ad imparare il dialetto locale. Non di meno conoscevano la grammatica italiana, la sintassi e l’esatta dizione delle parole, perché Tina pretendeva da tutti indistintamente (bambini compresi) che pronunciassero la lingua Italiana correttamente, ed era particolarmente inflessibile sulle e chiuse e sulle e aperte. Vita difficile per tutti, visto che anche i bambini, alcune volte, calcavano la scena. La compagnia teatrale era una famiglia allargata e si divideva tutto: oneri e onori, fame e fatica, momenti di gloria e di disperazione. Tutti contribuivano a far conoscere le opere di Pirandello, Shakespeare, D’Annunzio e molti altri autori. La compagnia teatrale assorbiva usi e costumi dei paesi in cui si fermavano, modi diversi di cucinare e modi diversi di esprimersi. Era sempre in movimento la compagnia teatrale; viaggiavano in treno, e con loro sui vagoni portavano lo stretto necessario; invece nei camion che li seguivano c’era tutto il loro teatro viaggiante, il “Carro di Tespi” come veniva chiamato, c’erano le cantinelle, le scene arrotolate e tutto il resto dell’attrezzatura, ma soprattutto le pareti e il tetto del teatro. Questo veniva ogni volta montato utilizzando le “capriate” su un largo spiazzo o spesso sul prato che costituiva l’unico pavimento su cui venivano disposte le sedie. Sempre nei camion venivano caricati innumerevoli bauli che contenevano gli abiti di scena. Gli stessi abiti che ogni sera gli attori selezionavano per lo spettacolo, li riponevano con cura nelle ceste assieme all’occorrente per il trucco, i gioielli, le sciarpe e cappelli, armi o ombrellini, lunghi bocchini per le sigarette e bastoni, scarpe e fibbie. Tutte le sere gli attori portavano in teatro la loro cesta ma non tutti avevano un camerino, per cui a secondo di “ chi è di scena” veniva occupato. Il trovarobe era responsabile del materiale necessario per le scene oltre che alla sua manutenzione e al suo reperimento, naturalmente poteva occuparsi anche degli effetti sonori o delle luci. Tina era la prima donna di questo teatro, in tutti i sensi: in ogni piazza il suo fascino non passava inosservato, era spesso ospite con il marito a casa di principi o dal medico o dal sindaco, in quelle occasioni a chi li aveva invitati non sfuggivano la sua grazia e i suoi modi raffinati, era una donna eccezionale: bella, colta, energica, intraprendente. In quell’aprile del 50, quando Tina ritirò dall’ufficio postale la lettera di Carlo, non avendo fissa dimora, rispose subito al genero, informandolo sull’indirizzo dell’albergo dove alloggiava a Portula. La guerra era finita, ma lei, nonostante fosse avanti con gli anni manteneva la sua classe e ancora una volta avrebbe provveduto alle necessità della figlia Marinella che si affidava a lei. Tina avrebbe chiamato un’ ostetrica che avrebbe assistito la figlia e… speriamo bene. Lo sapeva, il parto non era una malattia , lei stessa aveva partorito col solo aiuto delle altre donne per tre volte: Carla era nata a Borgo Sesia, poi Luigi a Brescia e da ultima Marinella che era nata a Follonica in Toscana. La soluzione più semplice, che aveva pianificato Tina, non si poté attuare perché l’albergatrice non diede la disponibilità a far partorire in albergo Marinella. In ospedale in quei tempi andavano solo i poveracci, così Tina attingendo alle sue conoscenze sul campo, ebbe il permesso dal capo stazione di appropriarsi momentaneamente di… un carro merci abbandonato sui binari morti della stazione. Tina lo fece pulire e disinfettare passandolo tutto con la calce, predispose l’occorrente e, quando fu il momento venne chiamata l’ostetrica. Tutto andò per il meglio e il 5 maggio del 1950 sono nata in un carro merci rimesso a nuovo. Gli anni passavano, Tina, classe 1897, invecchiava. Suo marito era morto. Il suo Nino tanto amato che aveva conosciuto, quando ancora il suo cognome era kursanovic, perchè di origine slava, e il fascismo in seguito lo avrebbe italianizzato in Curussani. Tina, giovanissima lo amava quando ancora faceva il tappezziere a Venezia, e lui soffriva per non poter vedere la sua Tina che viaggiava sempre. Sono del 1917, prima che si sposassero, le numerose lettere che erano intercorse fra di loro, una fitta corrispondenza giornaliera, dalla quale emergono la sofferenza per il distacco e le lamentele da parti di Nino per ”non aver ricevuto nulla da due giorni!”. Tutto era cambiato dalla sua morte, Tina sembrò invecchiare improvvisamente: Il mondo in torno a lei cambiava troppo in fretta, si sentiva sempre più stanca. Il cinema e l’avvento della televisione contribuirono a decretare negli anni 60 la fine del mondo di Tina. La compagnia si sciolse e i suoi rivoli si sparsero in tutta l’Italia. Cordiviola rimase nell’ambito teatrale con una sua compagnia a Vicenza ed ebbe molto successo anche come regista. i Nistri e poi Sergio Orlando, sfruttando il suo talento artistico, aprì una galleria d’arte a Milano. La figlia di Tina, Kyky, trovò lavoro come suggeritrice nel primo teatro stabile di Milano: ” Il Piccolo”, nella compagnia di Strehler, suo marito Osvaldo al Teatro dialettale “Gerolamo” con la compagnia di Mazzarella. Il suo secondo figlio, Bibi, vagò di compagnia in compagnia:(Gazzolo, Fantoni, Dario Fo) pur avendo moglie e casa a Valstagna, intervallò con piccole parti nel cinema e in TV ha interpretato la parte di un frate nei Promessi Sposi; ma a costo di fare la fame la sua passione rimase il teatro. Recitò anche nei “Masnadieri” al teatro Nuovo di Milano. Era un bravo attore e una volta per poter recitare aveva imparato la sua parte in Inglese, solo quella, solo la sua parte! Morì in treno, andando da un teatro all’altro, un treno che lo aveva accompagnato tutta la vita e che non lo ha voluto lasciare da solo in una stanza d’albergo ma se l’è portato via per l’ ultimo viaggio. Gli altri attori: Verdirosi, Minari, De Biasi, Giasone si tennero in contatto come si fa in tutte le famiglie. Tina, senza teatro, senza casa, e senza marito, si adattò a casa della figlia Kyky, in Toscana, poi a casa di Marinella, che nel frattempo si era trasferita in Lombardia. Un po’ da una, un po’ dall’altra. La sua presenza per i generi era ingombrante, per le figlie faticosa, Tina non ha mai abbandonato il suo ruolo di prima donna, ma si sa, troppe prime donne in una sola casa non vanno bene, così se per gli adulti era un problema per i suoi nipoti era tutta un’altra storia, per loro era Nonna Tina. Quando arrivava lo capivo dall’odore di fumo che trovavo in casa al mio rientro dalla scuola, era stato suo fratello Eligio, tornanto dalla guerra d’Africa ad avviarla a quel vizio. Nonostante avesse anche le dita giallastre io ero affascinata dal suo profumo: “violetta di Parma”. Mi dava i soldi come ad una persona grande e mi mandava dal tabaccaio a comperarle 5 sigarette: Nazionali senza filtro, che mi venivano consegnate in una bustina di carta oleata trasparente e scricchiolante. Andavo con lei al posto pubblico quando voleva telefonare; insieme camminavamo lungo il Bozzente, riportando a casa sassi colorati, foglie secche e ogni sorta di cose che per me erano tesori. Ascoltavamo la radio e quando c’era l’estrazione dei numeri del lotto bisognava assolutamente stare in silenzio. Come bisognava assolutamente stare composti a tavola e assolutamente parlare correttamente l’Italiano. Ero solo una ragazzina quando mi portò per la prima volta a teatro, anche allora pretese che stessi assolutamente in silenzio durante lo spettacolo; ma, quando Romeo decise di morire perché aveva visto Giulietta già morta scoppiai a piangere e lei mi strinse amorevolmente la mano. Un’altra prima volta fu quando mi regalò il profumo “Ca’ D’oro”, meno dolce del suo perchè diceva che per una ragazzina era meglio un profumo fresco. Giocavamo a briscola e si arrabbiava quando perdeva. Seduta accanto a lei ascoltavo estasiata tutte quelle storie che mi raccontava di quando era giovane e recitava, le trame degli spettacoli, gli aneddoti della sua compagnia e di quando Elettra piccolissima recitando la parte del figlio della Butterfly aveva fatto la pipì in palcoscenico. Oppure di quella volta che non si sentì lo sparo della pistola che in scena avrebbe dovuto colpire il cattivo di turno, ”e allora…” raccontava lei: “Nonno Nino prontamente prese dal tavolo un coltello e recitando a soggetto esclamò ” Ah…non vuoi morire… “ebbene ora ti uccido io” e mentre fingeva di accoltellare il cattivo, da dietro le quinte partiva lo sparo. Questo aneddoto mi fece molto ridere e quando successe davvero rise molto anche il pubblico, ma dopo ci fu una scenata perché le guittate facevano arrabbiare la nonna che era molto seria quando si trattava di teatro. Tina era una calamita: quando arrivava lei a casa nostra, dopo un po’ di tempo arrivavano a trovarci gli ex attori; io ascoltavo, senza capire perché fra di loro si parlassero e si rispondessero con stralci di drammi, con incipit di opere e brani di commedie. Evocavano i bei tempi passati, ma la propensione al melodramma faceva si che a volte si inalberassero: il loro tono cambiava, e io non sapevo mai se recitassero o fossero arrabbiati davvero. Il repertorio era vasto anche perché gli attori che arrivavano erano sempre diversi. Gli anni passavano, attraverso la nonna conoscevo le trame delle commedie, le opere e le operette, avevo imparato a memoria anche le papere memorabili di Mannussi che proprio non riusciva a recitare un pezzo abbastanza ostico del dramma “La fiaccola sotto il moggio” di Gabriele D’Annunzio, lei avrebbe dovuto dire: “Figliuolo mio, ti faccio un voto, ad ogni agugliata che traggo dal pennecchio. E come incocco e come do la torta, sei sempre meco nel mio filo pieno!” Puntualmente “come traggo” diventava “ come troggo” e…incocco diventava “incacchio” e naturalmente a seguire “do la torta” diventava do la trota!! Immaginavo che nonna Tina invecchiando si ripetesse, diventasse noiosa, invece lei riusciva sempre a stupirmi, per il mio diciottesimo compleanno mi regalò un bambolotto di gomma bruttissimo, con disegnata sul volto una barba scura e incolta con un grosso sigaro in bocca, un orecchino nel lobo dell’orecchio e capelli stopposi e lunghi; era vestito in modo trasandato e i jeans erano stracciati. Era una chiara allusione alla gioventù bruciata del 68. Naturalmente io non ero d’accordo. L’odore della plastica di questo bambolotto, dopo 47 anni e 5 traslochi è ancora lo stesso, solo un braccio si è staccato dal corpo e per me rappresenta la ribellione del 68. Trovavo in nonna Tina, anche quando fui più grande, una persona disposta ad ascoltare e a rispondere a quesiti scottanti. Lei mi spiegò perché certe volte si rimaneva incinte e certe altre volte no. Non mancava di informarsi sulle mie nuove cotte, mi consolava e mi rassicurava, dicendomi che avrei trovato presto il vero amore. Parlavo con lei di tutto ciò di cui non potevo parlare con gli altri. Non mi ha mai tradita. Quando morì non piansi. Quando morì non era più la mia nonna Tina, era un’anima persa, senza speranza, senza decoro e senza memoria. Quando morì ero arrabbiata. Quando morì ero da poco mamma e pensai alla vita. Pensai che lasciamo solo i nostri ricordi. Anche il suo mondo teatrale non c’ è più, si è evoluto, adeguato, ora ci sono più compagnie stabili, ma sempre, gli attori, recitando vecchie e nuove commedie, promuovono cambiamenti, stimolano dubbi, affascinano e incuriosiscono, fanno ridere, piangere e i grandi ritrovano lo stupore dei bambini. La recitazione degli attori arriva e tocca corde che il pubblico non sapeva di avere, non è un effetto immediato, a teatro ci vuole silenzio, attenzione e poi la magia a poco a poco cattura il pubblico. Tutto contribuisce: La scenografia, le luci, i suoni, gli effetti speciali, la postura degli attori nei loro costumi, il trucco, il tono della voce, l’ incalzare del monologo o un silenzio intrigante. Tutta questa finzione per arrivare alla verità. Il pubblico ne viene coinvolto e vi si trova al centro. Verità fastidiose, dolorose o gratificanti, verità intoccabili, scomode o addirittura dimenticate. Tutto in questa finzione riporta a temi universali e sempre attuali, non importa che la commedia si svolga ai tempi di Carlo V o che si parli di Tristano e Isotta. I Temi sono immortali: L’amore, il bene e il male, l’invidia, il potere, la fame , il sogno, la morte, la speranza… Dal tempo degli antichi Greci le storie si ripetono sempre diverse e sempre attuali. La scomparsa della nonna Tina è come il suo teatro. Nella tragedia della realtà una verità emerge: ha lasciato talmente tanto di sè in chi l’ha conosciuta che Il suo spirito è rimasto vivo. Il dolore lasciato dal vuoto fisico si riempe di ricordi.

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Portula 14-12-2015

Siamo in macchina, io e mio marito, dalle parti di Biella, come un riflesso penso: Portula, in provincia di Biella. Non ho mai visto dove sono nata.Dai andiamo a cercare la stazione ferroviaria di Portula, magari trovo il carro merci!” Il navigatore comincia a chiacchierare, Enrico che solitamente non ubbidisce neanche a lui, questa volta segue diligentemente le indicazioni e dopo poco tempo cominciamo a salire. E saliamo ancora. Mi agito, ma non ci sono dubbi, la strada è giusta, abbiamo appena incrociato il cartello comunale che indica la città di Portula.Ma sei sicura di essere nata in treno? Non vedo binari in giro”. Saliamo ancora ed è chiaro che qua su non esiste nessuna ferrovia. Ma non è possibile che sia una frottola! Mio padre quando voleva zittirmi diceva bonariamente: “ Taci tu, che sei nata su un carro bestiame abbandonato sui binari morti”. E poi c’ è mia cugina Elettra con la storia della cicogna, che quando era arrivata in stazione lei era già volata via e l’ostetrica che dopo il parto aveva detto che il vagone era perfettamente pulito e disinfettato, meglio che in certe case. Sono angosciata, ma si può arrivare a 65 anni e non sapere dove sono nata? Arriviamo in piazza, non c’è ombra di stazione ferroviaria e tanto meno di treni.Allora… cosa vuoi fare? Torniamo indietro?” No, non ci posso credere, non può essere una storia inventata, mia nonna non mi avrebbe mai mentito. Fammi andare a chiedere in Comune”A quest’ ora è chiuso!” Ma devo sapere, devo provare. Devo. Certa che il comune fosse aperto solo perché io ne avevo un disperato bisogno, scendo dalla macchina e mi avvio verso la porta del Comune con il cuore che mi batteva a mille. Abbasso la maniglia e spingo, è aperto! Al di là di un’altra porta a vetri intravedo un’impiegata. Prima di arrivare davanti al banco, mentre lei scrive china sulla scrivania il terrore che mi possa prendere per pazza mi assale. Devo scegliere bene le parole giuste,Buona sera” esordisco, “ senta, io sono Antonia Mascia e 65 anni fa sono nata qui a Portula però… mia mamma mi ha sempre detto che sono nata su un treno, ma… non c’è nessuna stazione qui a Portula e io… non so cosa pensare… insomma non so dove sono nata, lei non mi potrebbe aiutare?” L’impiegata resta impassibile, mi chiede un documento e dopo averlo controllato si dirige verso un armadio e dopo aver fatto scorrere le grosse ante ne trae un librone, lo porta verso la sua scrivania e comincia a leggere in silenzio, poi mette al corrente anche me, che friggevo dall’impazienza.Dunque… qui c’è scritto nata nella casa posta in frazione Granero numero 51”. In una casa a Granero? Al numero 51? Oddio a Granero, mai sentito nominare Granero, mi sembrava di essere uno di quegli impiegati che non capivano mai Portula.” SI, Granero è una frazione di Portula e lì c’è la stazione , ma adesso non funziona più.” Oddio, meno male che c’è la stazione” al n. 51, la mia nascita è piena di 5. Dietro di me si materializza Enrico, che finalmente aveva trovato parcheggio, l’impiegata dopo aver dato un’ occhiata veloce al librone lo guarda e chiede: ”il Signor Leoni?”Ma c’è scritto anche il suo nome sul certificato?”Certo, aggiunge lei e, dopo avermi letto parte dell’atto di nascita, cerca altre notizie, ma non ne trova. Io sono elettrizzata e non vedo l’ora di cercare la stazione. Chiedo di poter fotografare il documento ed essendo la persona interessata ricevo dall’impiegata la fotocopia, un bel foglione di 42cm.x 29,5. Ringraziamo ed usciamo in fretta, io col mio certificato in mano, Enrico ancora incredulo del fatto che io abbia trovato il Comune aperto a quell’ora. Fuori è già buio, e io sono in ritardo di 65 anni, devo correre a Granero ma... sento dentro di me un’ immensa gratitudine per l’impiegata che, pur senza farsi coinvolgere era stata molto educata e professionale. Decido di rientrare in Comune per ringraziarla meglio e farle capire come la sua disponibilità sia stata importante per me. Lei per la prima volta accenna ad un sorriso e mi spiega:È una coincidenza che oggi io sia qui a quest’ora, il Comune dovrebbe essere chiuso, sto registrando l’atto di morte di mia nonna che è appena scomparsa. Finalmente capisco perché prima la sentivo lontana e perché avevo avuto la necessità di tornare da lei, per esprimerle meglio la mia riconoscenza. Mentre mi parlava delle strane combinazioni, della necessità di sopire il proprio dolore, della nostra provvidenziale interruzione, osservo tutti quei particolare che prima non avevo letto in lei. È vestita interamente di nero, in forte contrasto col pallore del viso; il tono della voce ora non è più neutro, ma gli occhi sono un po’ gonfi come prima: tutto in lei avrebbe dovuto farmi pensare ad una persona affranta. Solo ora colgo il suo stato d’animo, e non so comunque cosa dirle, anche se posso immaginare il suo dolore. Mi dispiace tantissimo, la capisco, anch’io ho avuto una nonna speciale”. Peccato non avere avuto la prontezza di aggiungere, in quel momento, che i ricordi della sua nonna l’avrebbero aiutata. Ci siamo salutate come se ci conoscessimo da tanti anni, entrambe, credo, più leggere, se fra di noi non ci fosse stato il bancone sono certa che ci saremmo abbracciate. Risalgo in macchina e, mentre Enrico si dà da fare per raggiungere Granero, che aveva notato prima di cominciare a salire, io leggo avidamente tutti i particolari scritti sul mio certificato di nascita.Senti, c’ era anche mio padre. La denuncia di nascita in Comune è stata fatta quattro giorni dopo. Nessuno me lo aveva mai detto, sapevo che lui aveva spedito la mamma e Luciano a Portula e basta. C’è la testimonianza dell’ostetrica che ha assistito al parto e ci sono i nomi dei testimoni dell’atto, due impiegati del comune… senti, senti, sono nata alle 15-30. Elettra era ancora a scuola a quell’ora, per quello non ha visto la cicogna! Sono euforica, contenta e impaziente. Parcheggiamo l’auto davanti al numero civico 51, a destra e a sinistra di questa villa intravediamo nel buio alcuni depositi ferroviari. Si, sono nata qui. Suono il campanello, pensando che mi avrebbero scambiata per una venditrice ambulante, invece sono stati disponibilissimi i due coniugi che ci sono venuti incontro. Gli abbiamo raccontato grosso modo la storia, erano interessati, abbiamo chiacchierato un po’, loro conoscevano un sacco di cose, compreso il nome del capostazione che c’era negli anni 50. Ci siamo salutati con la promessa che saremmo ritornati. Stavo salendo in macchina quando la signora mi ha chiesto: “In che mese è nata?”A maggio, il 5 Maggio del 50, perché me lo chiede?Maggio è un bel mese per nascere qui, c’è il sole tutto il giorno”. Allacciandomi la cintura di sicurezza ho pensato: “cosa voglio sapere di più, sono nata in una bella giornata soleggiata.” Epilogo I ricordi di nonna Tina li ho sempre avuti con me e solo ora ne scrivo, grazie a Sandra, solerte impiegata del comune di Portula, che attraverso il suo dispiacere mi ha fatto capire che anche lei, come me, ha avuto una nonna speciale.

Mi torna difficile ricordare i titoli dei libri letti, ancora di più il nome degli autori o autrici se magari sono stranieri. Anche le trame, a distanza di tempo, evaporano e i personaggi a volte si confondono. Ma allora cosa resta di un libro a distanza di anni? Amo pensare che quello che mangiamo contribuisca a cambiare e mantenere il nostro corpo, così immagino anche che la lettura stimoli ed aiuti la mente a crescere e a rinnovarsi continuamente. E’ quindi un vero peccato non ricordare i libri letti, così su di un quaderno annoto: Autore, titolo del romanzo, data di lettura e poi poche parole che mi riportino alla trama oppure un solo aggettivo. E’ estremamente riduttivo ma quegli aggettivi, quelle poche parole sono chiavi che fanno scattare la serratura di scrigni al cui interno ritrovo tesori che non ricordavo di avere ma che mi apparterranno per sempre. Il romanzo l’amico immaginario di Matthew Dicks è commuovente, coinvolgente, e la voce narrante di Budo, che è l’amico immaginario di Max rivela fino in fondo quali siano i pensieri dei bambini e il perché dei loro comportamenti. Rivela come la fantasia li possa aiutare, come gli adulti possano essere crudeli e in fine come un amico immaginario possa essere realmente un amico disinteressato. Si legge nella prima pagina Ecco quello che so: Mi chiamo Budo. Esisto da cinque anni. Cinque anni è una vita lunghissima, per uno come me. E’ stato Max a darmi questo nome. Max è l’unico essere umano che riesce a vedermi. I genitori di Max mi chiamano l’amico immaginario. Voglio molto bene alla signora Gosk, la maestra di Max. Invece l’altra maestra, la signora Patterson, non mi piace per niente. Non sono immaginario. Questa prima pagina è un capolavoro e nemmeno le altre scherzano! Altri amici immaginari aiuteranno Budo e Max, che è un bambino autistico, a districarsi in questo giallo avvincente. Uno però mi è rimasto impresso più degli altri: Oswald, che nella storia ha sicuramente il suo peso, in tutti i sensi perché viene descritto grande, grosso e picchiatore. E’ a Lui che l’autore affida una disquisizione sul coraggio di Max. Ne sono rimasta colpita. Sul quaderno affianco all’autore Matthew Dicks, al titolo L’amico immaginario e alla data , ho scritto: Commuovente. Formidabile il coraggio di Max.

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Io non sapevo, e con me penso molti altri, perché la camorra non ha mai amato la pubblicità sul suo conto. Così gli arresti, i morti, i sequestri, finivano nel calderone delle brutte notizie che tutti i giorni imperversavano e imperversano nelle nostre orecchie e si accaniscono sui nostri occhi. Anche volendo non si capisce mai quale famiglia abbia prevaricato su di un’altra, visto la velocità con cui si sostituiscono. Si perde il conto dei morti come se si trattasse di birilli caduti: birilli camorristi, birilli imprenditori, birilli politici, birilli rosa sciolti nell’acido, birilli bambini, caduti in un gioco crudele a cui non avrebbero mai dovuto giocare. E ancora: soldi, droga, appalti forzati, lavoro nero, smaltimenti illeciti. Un mondo che sembrerebbe a parte, lontano, un mondo che pensiamo non ci riguardi, che non conosciamo e che crediamo sia gestito da pecorai ignoranti. Quando in televisione sentiamo parlare i pentiti, noi comuni mortali, ci chiediamo come gente del genere tenga in scacco la polizia, faccia affari con il mondo intero, semini terrore e morte. In GOMORRA , Roberto Saviano ci spiga tutto in undici capitoli . Viaggio nell’impero economico e nel sogno di domini della camorra, è il sottotitolo di questo libro. Leggendolo si capisce quanto sia stato difficile e penoso per Saviano percorrere tutte le vie possibili in questo viaggio nella sua terra. Vivendo personalmente fra lavoratori in nero, scaricando merce di contrabbando, assistendo a processi, funerali e raccogliendo confidenze. Comincia con un punto chiave: Il porto, da dove arriva di tutto e riparte di tutto. La scrittura sembra incredula ma quello che vede Saviano è di sicuro impatto: un container si apre per sbaglio e a terra finiscono cadaveri umani congelati. Di cinesi che non muoiono mai, se ne sente parlare ma…le realtà che ci racconta Saviano fanno ricongiungere i vari tasselli. Prosegue con l’alta moda, e qui i tasselli a me mancavano tutti! un capitolo che a differenza degli altri potrebbe sembrare più innocente ma… innocente non è: aste camorristiche, morti, minacce, sparatorie, sfruttamento, lavoro nero. E Angelina Jolie, ignara di tutto, indossa la notte degli Oscar un abito confezionato ad Arzano da Pasquale che guadagna seicento euro al mese. A seguire: come funziona il sistema, la guerra di Secondigliano, e le donne dei camorristi, ma anche le donne camorriste con le loro guardie del corpo in abiti che scimmiottano la camorra raccontata nei film. Non tralascia niente Saviano, si è informato, ha sentito, ha letto, ha studiato, riordinato luoghi, date, incontri, nomi, ha visto, ha vissuto e partecipato. Il suo libro trasuda di tutto questo. E’ con umanità toccante che parla di Don Peppino Diana, è con una tristezza infinita che nell’ultimo capitolo cammina nella terra dei fuochi: Avevo i piedi immersi nel pantano. L’acqua era salita fino alle cosce. Sentivo i talloni sprofondare. Davanti ai miei occhi galleggiava un enorme frigo. Mi ci lanciai sopra, lo avvinghiai stringendolo forte con le braccia . Seguono i suoi pensieri che con rabbia e speranza concludono il libro. Io so. Nel capitolo: Cemento armato, Saviano ripete con insistenza: Io so, come se fosse un mantra che lo aiuta a denunciare, a spiegare, a far capire. La forza delle sue parole non fa sconti a nessuno e per essere chiaro termina così questo capitolo:Io so in che misura ogni pilastro è il sangue degli altri. Io so e ho le prove. Non faccio prigionieri. Lui sa e adesso anche noi sappiamo. Grazie Roberto Saviano, per il coraggio e la forza , grazie per averci portato con te a vedere e sentire. Il contenuto di questo libro è talmente alto che il fatto che sia scritto benissimo sembrerebbe passare in secondo piano invece la sua capacità di scrittore porta il lettore passo passo con chiarezza nelle terribili vicende del sud e non solo.

Il libro di Maria Fedele e Mary Nicole si presenta egregiamente: prima e quarta di copertina riportano graziosi e variopinti disegni eseguiti da Claudia Mesa e Michele Finelli , per rappresentare le fiabe descritte al suo interno. I fogli sono di carta patinata in una rilegatura impeccabile. La grandezza del carattere usato è particolarmente grande e…. per una nonna che debba leggere queste storie ai nipotini è piacevole. Penso anche che sarà perfetta per quei bambini che già leggono da soli. Ma si farebbe un torto alle due autrici se si riducesse questo libro ad un’utenza così limitata. E’ infatti chiaro fin dal titolo del libro: “Piccole fiabe crescono ” che i racconti hanno diverse chiavi di lettura, per cui il libro di Maria Fedele e Mary Nicole è destinato a tutto quel pubblico che pensa ci possa essere sempre un’occasione per Crescere. Per la presentazione di questo libro le due autrici si sono affidate alle parole di un autore di eccezione e… non vi dirò nulla, a voi il piacere di scoprirle.

Si dividono il libro le due autrici: sei racconti per Mary Nicole e cinque per Maria Fedele.

La prima le intitola: Fiabe dal recinto, e già questo recinto io l’ho interpretato come un abbraccio, un abbraccio amorevole che protegge, consola ma insegna anche ad affrontare le diversità, come in: “Un gradevole intruso” e “La vita scorre”. Dove la mamma scrofa salva ed accudisce un piccolo riccio. Dove allontanarsi dal recinto vuol dire anche crescere ed allargare la famiglia. Mary Nicole affronta con garbo anche il tema dell’emigrazione dal punto di vista dei bambini, descrive la nostalgia di Al per la sua terra d’Africa e il suo integrarsi in: “Si parte” e in: “100”. Altre storie, come quella della gattina Minù che dovrà vedersela con un cagnolino, mettono in evidenza problematiche come l’egoismo e l’incapacità di capire gli altri. La scrittura di Mary Nicole è scorrevole, chiara, piacevole, i suoi racconti sono come la sua biografia: pieni di persone care, amici e amore. Ha cominciato a scrivere poesie a 6 anni e a 15 vinceva concorsi letterari, ha pubblicato diversi libri tra cui: “Padparadshah. Rosa D’asfalto” edito da Arcipelago Edizioni nel novembre 2004. Membro dell’Antologia “IncastRIMEtrici vol.1edito nel 2006 e autrice del libro “Ultima cena di Mary Nicol, in download gratuito su www.lulu.com/content/2282314.

Per Maria Fedele  è:”La prima volta che pubblica dei racconti” e se non ci avessero informati nella biografia non ce ne saremmo accorti perché la sua scrittura è diretta, espressiva e priva di fronzoli. Anche i sui racconti parlano di animali e danno il titolo a questo libro “Piccole fiabe crescono”. L’ippopotamo Gelsomino, la cui mole gli procurerà non pochi problemi, si troverà alla fine della fiaba ad essere leggero come una farfalla e…solo leggendo il racconto si capirà come sia potuto succedere. L’autrice descrive puntigliosamente la caparbietà della tartaruga Eloisa che vuole assolutamente raggiungere la cima della montagna. Sembra solo una fatica, affrontata in solitudine, gli amici vorrebbero aiutarla ma lei vuole la sua libertà. E’ una dura Eloisa, come il suo carapace. L’autrice ad un certo punto la descrive così: “Ma Eloisa era la testuggine più testarda del pianeta, quindi impettita non tornò indietro, avrebbe perso del tempo prezioso e poi oramai la meta era lì a portata di mano. Non fece però i conti con il freddo glaciale che la costrinse sempre più spesso a rifugiarsi in se stessa, nella sua armatura, così consueta, conosciuta, così solita e familiare, da cui poteva ricevere protezione, sicurezza e sopravvivenza”. Riuscirà Eloisa a raggiungere la vetta? e poi? I finali delle fiabe di Maria Fedele sono sempre ben studiati. Altri animali popolano le sue fantasiose fiabe: La lucciola Caterina che scopre di essere una veggente e il topo Ernesto che dopo aver raggiunto la luna, tornerà coi piedi per terra. Pagine piene di dolcezza sono quelle dedicate alla favola “Brava Giulia”. La protagonista interpreta il desiderio di volare, comune a molti bambini e l’autrice risolve il problema con maestria. Anche qui il finale è pirotecnico! Fra le righe, anche nei racconti di Maria Fedele, troviamo ineguatezza e accettazione, incapacità di ascolto ed egoismo, paure e felicità.

“Piccole fiabe crescono” Maria Fedele & Mary Nicole

Ma siamo sicuri che siano solo fiabe?

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E mi è piaciuto moltissimo! Il film di animazione di Hayao Miyazaki inizia lentamente e dolcemente per proseguire poi con un ritmo incalzante. I protagonisti della favola sono: Ponyo, una pesciolina rossa un po’ magica che rimane incastrata in un vasetto di vetro. Sosuke il bimbo che la libera e le promette di proteggerla. Altro protagonista di questo splendido cartone animato è l’ambiente: quello marino e quello terrestre. Il mondo marino è in continuo movimento: le alghe fluttuano, i pesci ondeggiano, le meduse danzano, le onde si accavallano; le tinte pastello sembrano stemperarsi in acqua fondendosi con l’ambiente. Ma non sono sempre rose e fiori! Quando nella nostra favola Ponyo si ribella al padre Fujimoto “stregone del mare” allora si che il mare si arrabbia: le onde si ingrossano, si uniscono, diventano enormi, scure ed hanno occhi spaventosi. Il furore del mare segue gli umori di Fujimoto che è determinato a riportare Ponyo in fondo al mare; ma lei vuole diventare una bambina e tornare sulla terra da Sosuke. Una terra che Hayao disegna con maestria: le coste, i boschi i prati sono lussureggianti ma anche pieni di immondizia. In questa favola i bambini sono: responsabili, determinati e generosi. La presenza femminile è preponderante: c’ è la mamma di Sosuke, che è un bel peperino. La mamma di Ponyo creatura marina particolarmente affascinante, le donne anziane, ospiti dell’istituto Girasole e le dipendenti, e naturalmente le maestre di scuola. I maschi sono più defilati se non quasi assenti, come il padre di Sosuke. Oppure sono cattivi come lo stregone Fjimoto. Siamo in Giappone e le mamme sono uguali alle nostre: Capaci di arrabbiarsi di brutto. Siamo in Giappone e i papi vanno per mare. I nostri sono intrappolati dal lavoro e dal traffico. Siamo in Giappone e le anziane sono uguali alle nostre. Alcune dolcissime, altre insopportabili. Siamo in Giappone e il mare e la terra sono inquinati come i nostri. Siamo in Giappone, Susuke chiude il rubinetto dell’acqua. Anche i nostri bambini stanno imparando. Ponyo sulla scogliera: Una favola per bambini, un incitamento per i grandi.

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La via Biringhello era di razza contadina, si allungava scavata nei campi, anonima, quieta, all’apparenza deserta. Ma come i contadini anche lei nascondeva un sacco di segreti. La rivedo ancora, un po’ sbilenca, e piena di sassi, se  c’era il sole  la polvere sbiadiva il verde ai suoi lati per riprendere brillantezza poco più in là. Se invece pioveva le buche si allagavano  formando un mare d’acqua che persisteva a lungo, per questo i Rhodensi l’ hanno soprannominata: ” Il Mar di Biringhello”. Ci sono ancora oggi degli anziani che per sottolineare il fatto che non andranno in ferie dicono: “Andremo al mar di Biringhello”.

La strada era una scusa, un mezzo, un punto di partenza dal quale ti potevi aspettare di tutto. Bastava costeggiare la cinta del campo sportivo, poco distante,  per scovare fra l’erba alta i ricci. Bastava che i contadini alzassero le chiuse dei canaletti per irrigare i campi che subito i tuoi piedi si tuffavano in quell’acqua gelida che ti trascinava e dovevi tenerti ben salda. Bastava che qualcuno scovasse l’erba che suona per sbizzarrirti in un concerto improvvisato, oppure tutti a buttarsi in quella macchia color violetto per succhiare l’attacco di quei  fiorellini dolcissimi. C’era l’erba che masticandola sapeva di limone, l’ortica che bruciava, altre che infilate nella schiena facevano il solletico. Raccoglievamo margherite, viole e gigliucci, passavamo ore e ore alla ricerca di un quadrifoglio. Più comuni invece i soffioni del tarassaco, che usavamo per soffiarceli l’un con l’altra. A volte l’erba era tanto alta da potercisi nascondere, oppure eravamo piccoli noi, non so!

In quell’intrico di erba, rametti e arbusti, a lato di strada, scorgevamo nidi e formicai, salvavamo gattini abbandonati, e portavamo a casa piccoli di merlo che nutrivamo con carne trita e pezzettini di frutta.

Oltre alle macchine agricole, in Via Biringhello  ci passava il carretto dei gelati che per annunciarsi  suonava il campanello, e noi, tutti a casa, per farci dare cinquanta lire, poi eravamo tutti attorno al carrettino ad aspettare il nostro turno, allungavamo il collo ogni volta che il gelataio alzava il coperchio per affondare la paletta nella panna o nel cioccolato, richiudeva per non farlo sciogliere  e dopo aver riempito un cono passava a prepararne  un altro, e noi sempre li ha sbavare, a controllare che il nostro cono fosse grande come quello degli altri. Pedalando  era arrivato il gelataio vestito di bianco e pedalando proseguiva verso la frazione di Biringhello.

Sulla via Biringhello c’erano poche villette ma quando altri uomini  passavano le donne spuntavano improvvise a farsi molare i coltelli e le forbici dall’arrotino che era vestito di nero. Anche noi accorrevamo e ci fermavamo incantati a guardare la mola che girava e affilando i coltelli spruzzava acqua.

Arrivava un furgoncino con stoffe, calze, fazzoletti e abiti; e di nuovo tutti in strada a mercanteggiare sul prezzo di una camicia,  a ridere del colore di un vestito, a saltare sul furgone!

La strada era la nostra pista per correre, i suoi bordi ci servivano da trampolino di lancio, le sue buche erano ostacoli da saltare, i sassi macigni da spostare, i rospi mostri da sconfiggere. Le ampie pozzanghere ancora scure per l’umidità ma già segnate dalle crepe ci fornivano del fango fantastico per farci di tutto. Eravamo sempre o  impolverati o  infangati, con le ginocchia sbucciate, gli abiti  sbrindellati e il moccico al naso. Eravamo felici e non lo sapevamo!

Poi… molto poi… hanno asfaltato la via Biringhello e quando piove  resta ancora allagata! Questione di pendenze? di scarichi? non si sa!

Ieri ho raccontato a mia nipotina la storia del Mar di Biringhello e comunque, il primo giorno di pioggia la porterò a conoscere questo specialissimo mare!I


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E’ passato un anno e la bisnonna è sempre più avvolta nei suoi ricordi a volte nebulosi, a volte  lucidissimi, i non mi ricordo sono aumentati esponenzialmente, ed ogni tanto chiede di chi sia figlio uno dei suoi bisnipoti che gli saltano in torno. Non riconosce il golf che indossa e… per l’ennesima volta le spieghiamo che è il nostro regalo di Natale per lei.

Speriamo che serbi il ricordo di questa giornata e che le sia di conforto in giornate più dure.

E’ passato un anno e la più grande delle nipoti festeggia oggi con noi il suo ventitreesimo compleanno, perché altrimenti dice: ” Va a finire che domani, data ufficiale, non lo festeggio più “. E’ cambiata Paola, l’ho sentita più sicura e disinvolta, la scelta di vivere da sola sta già dando i suoi frutti. E’ la prima ad andarsene, vuole riposarsi per essere in forma nei giorni successivi, quando riprenderà a lavorare.

Speriamo che il suo contratto a tempo determinato si trasformi al più presto  in un contratto a tempo indeterminato. Soprattutto alla gioventù non dovrebbe mai essere tolta la speranza.

E’ passato un anno e i nonni che girano per casa, hanno fatta esperienza: conoscono meglio i nipoti e con loro cantano, giocano e leggono storie. Conoscono meglio generi e nuore. Cercano di accontentarli, barcamenandosi con le esigenze di entrambi.

Speriamo che conservino la forza che gli occorre.

E’ passato un anno e la squadra di nipotini è sempre da ” mangiare!“, hanno imparato a parlare, a giocare insieme, si scrutano, si copiano, corrono pericolosamente tra il tavolo e il divano. Quando la piccola canta una canzone spontaneamente tutti tacciono e quella vocina incanta tutti.

Speriamo che il loro entusiasmo non si esaurisca mai.

E come l’hanno scorso suona più volte il campanello:Altri zii, altri cugini, altre nonne, tutti desiderosi di incontrarsi, salutarsi, abbracciarsi.

Speriamo che durante l’anno che verrà possano trovare il tempo di: incontrarsi, salutarsi, abbracciarsi.

E’ passato un anno e ancora manca una mamma che è di turno in ospedale. Speriamo che l’hanno prossimo si possa festeggiare insieme.

E’ passato un anno e i padroni di casa ci ospitano ancora. Speriamo per l’hanno prossimo di poterli ospitare tutti da noi.

Speriamo… speriamo in bene per tutti.