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Un filo di panni stesi ci ha accolto al termine dei gradini che ci portavano sull’ampio spazio del teatro di Epidauro, proprio all’altezza del viso; liberata la visuale spostando un asciugamano, sono rimasta allibita: un accampamento di poche roulotte, tendina canadese e camioncino occupava lo spazio retrostante il palcoscenico e… c’era anche un carro funebre un po’ vecchiotto e mal messo, come tutto il resto. Dopo un attimo di sbigottimento nel quale ho pensato: gli attori forse dormono qui, ma… il carro funebre? Poi all’improvviso ho capito: Alcesti muore all’inizio della tragedia greca di Euripide, e noi eravamo nel pieno dell’arco scenico, spostando l’asciugamano che inizialmente ci copriva la visuale, era come se avessimo aperto il sipario di velluto del teatro, eravamo entrati direttamente nella tragedia.

Con il nostro cuscino sotto braccio, ci siamo inerpicati nella cavea dell’anfiteatro cercando i numeri 10 e 11 relativi ai nostri biglietti, l’impresa sarebbe stata impossibile senza l’aiuto delle numerosissime maschere, fra l’altro gentilissime. Con notevole anticipo sull’inizio dello spettacolo, l’anfiteatro si presentava vuoto, imponente, e di un’eleganza essenziale. Le gradinate ricavate scavando sul lato ovest del monte Kynortio erano ancora illuminate e rimandavano un immagine di grandiosità. Poi, piano piano ( siga’ siga’) come si dice qui in Grecia, una miriade di spettatori hanno oscurato le gradinate coprendole di colori, di movimenti di voci e di zainetti. Vecchi, giovani, uomini, donne, bambini e bambine, coppie, singoli e gruppi di diverse nazionalità hanno occupato quasi totalmente i 15.000 posti di questo gioiello, dichiarato patrimonio dell’umanità.

Ridotta ai minimi termini, la tragedia “Alcesti” potrebbe suonare così: il dio Apollo è condannato da Zeus a servire come schiavo Admeto, re di Fere. Quando Apollo scoprirà che il suo re dovrà morire farà di tutto per evitarlo, e ottiene dalle Moire la sua vita a patto che qualcun altro muoia al posto suo. Non trovandosi volontari, la moglie Alcesti si sacrifica per lui. Poi Eracle, che passa di li durante le sue famose dodici fatiche, non capisce subito la portata della tragedia e quando in fine viene messo al corrente che il funerale appena svolto era quello della regina Alcesti, si pente della sua ilarità e delle sue bevute di vino, così cerca di rimediare e sempre tramite le Moire fa rivivere Alcesti.

Si è fatto buio, i tabelloni laterali illuminandosi indicano il titolo della tragedia e per tutta la durata dello spettacolo si susseguirà la traduzione simultanea in greco e in inglese, mentre gli attori reciteranno in tedesco! Panico, non lo sapevamo e noi conosciamo solo l’italiano e il francese, meno male che ci siamo letti prima la storia, ripetutamente, per capirla e gustarla meglio. Sul palcoscenico, da solo, il re di Fere recita, non ci sono scene, il costume è minimalista, non c’è musica e una sola luce lo illumina, ma… sono attentissima, pur non capendo nemmeno una parola mi rendo conto della disperazione di Admeto che perderà la sua sposa, è accasciato e piagnucola, poi si rialza e impreca camminando convulsamente, i toni, il volume cambiano in continuazione, si capisce che è un uomo distrutto. Intanto Thanos, la morte, attende nel carro funebre con la bara che sporge e i fari accesi. Prima di andarsene Alcesti saluta affettuosamente i figli che le sono corsi incontro sul palcoscenico uscendo di corsa dalla roulotte illuminata, sono vestiti di bianco e frenandosi ai piedi della madre sollevano un grosso polverone che illuminato dai proiettori sarà parte integrante per molte scene. Sulla stessa polvere Alceste ed Almeno, dopo che la domestica ha riaccompagnato i bimbi in roulotte si rotolano amandosi per l’ultima volta, poi lei balla accompagnata dalla musica e si dirige al carro funebre entrando nella bara. Un coro in sottofondo, e delle enormi lettere proiettate fino agli alberi dietro le roulotte immagino traducano una frase che avevo letto precedentemente: “il morto giace il vivo si dà pace”. A questo punto arriva il padre di Admeto con la valigia che porta il vestito per la morta, viene aggredito a male parole dal figlio che non gli perdona di non essersi sacrificato per lui e di conseguenza lo accusa della morte di Alcesti. Volano le uniche due sedie di plastica in scena a interpretare la rabbia e la violenza. Il padre non si scompone e gli risponde per le rime (non so cosa, ma cercherò di documentarmi) lo scontro generazionale è sempre interessante.

Irruento e chiassoso irrompe provvidenziale nella scena vuota l’ospite Eracle, reduce dalle sue famose 12 fatiche, equipaggiato di enorme zaino con attaccato di tutto, di cappellaccio da esploratore e scarponi da alpinista; ha un vocione tuonante e quello che dice fa ridere il pubblico. È accolto festosamente dalla famiglia ma notando comunque la tristezza del padrone di casa, gli viene detto, per non turbarlo che si è appena seppellita una persona di famiglia non consanguinea . Eracle continua così la sua allegria e le sue bevute, finché non viene messo al corrente dalla cameriera che è la moglie del re che è morta. Silenzio, Eracle si muove circospetto, sembra pentito e vuol rimediare, si libera dello zaino cammina piano, pensoso, poi bofonchia qualche frase fra sé e sé, ma se pure l’acustica è perfetta e si capisce chiaramente il suo discorso non è necessaria la traduzione: la mimica del volto e del corpo, il tono e il volume della voce, le pause interrogative e la gestualità, fanno di Eracle un attore perfetto, come del resto tutto il resto della compagnia. Di nuovo il coro e sul palcoscenico Admeto, con l’aiuto dei figli cerca maldestramente di distribuire su di uno stendino la biancheria bagnata, le roulotte sul fondo sono illuminate e Thanos cerca con una pila puntata nel motore, di trovare il motivo per cui non riesce a partire, è stato con la testa nel motore a trafficare, da quando Alcesti è entrata nella bara. E mentre il pubblico è concentrato sul bucato che viene steso, una grossa nuvola rossa avvolge il carro funebre, che solo inizialmente copre Eracle che sposta verso il palcoscenico una impalcatura coperta da un pesante drappo. Eracle aveva contattato le Moire ed era riuscito a riavere viva Alcesti che però non avrebbe parlato per altri tre giorni e ora era lì, al centro del palcoscenico davanti ad Admeto e gli offriva questa donna, che diceva di aver vinto al gioco delle carte. “ non se ne parla nemmeno” dice Admeto, “ho promesso ad Alcesti che non avrei avuto mai altra donna all’infuori di Lei”. Ma dai… non fare così… dalle solo un’occhiatina. E sotto il drappo Admeto scopre Alcesti.

Le chiamate del pubblico per applaudire gli attori sono state molte, intense e meritate anche da parte nostra che non abbiamo capito una sola parola. Merito senz’altro della magia del teatro.

Imbocchiamo a ritroso la strada per lasciare il teatro, mi giro e con noi una marea di gente ondeggia in discesa e penso agli antichi Greci che per così tanti anni hanno calpestato gli stessi gradini e forse come me hanno pensato alle inevitabili considerazioni e dubbi di questa tragedia: Thanos, la morte,che è accomodante ma implacabile nell’esigere una vita, una qualsiasi, tanto lì lo sa che prima o poi toccherà a tutti. Molti di noi però si comportano come se dovessero vivere in eterno. Il granitico amore materno, che in questo caso fa difetto: Alcesti abbandona i figli, ma alle madri, da sempre si è chiesto troppo. Avere le conoscenze giuste: un ospite amico come Eracle che ti risolve i problemi non è da tutti averlo. Un padre solo, incapace di gestire i figli… e anche il bucato. E in fine sulla trama penso che molte donne oggi avrebbero da ridire: sacrificarsi e morire per amore, vincere una donna al gioco delle carte… più che ad una tragedia penserebbero ad una farsa, e poi spero che vorranno tenere presente che la tragedia in questione è stata scritta da Euripide nel 438 a.C. Che però, sommati ai nostri 2022 d.C. fanno 2460, ebbene dopo tutto questo tempo per alcuni uomini non è cambiato molto visto che considerano ancora le donne oggetti di loro proprietà.

Adesso però devo stare attenta a dove appoggio i piedi, questi gradini sono alti, alcuni sconnessi ed altri sbeccati. Ci avviamo all’immenso parcheggio, saliamo in macchia per rientrare, ci perdiamo e ci mettiamo due ore anziché una, una vera tragedia greca. Due al prezzo di una.





Ed, il mio carceriere” è il titolo del primo romanzo che Patrizia Baccarini pubblica, e sin dalle prime pagine emerge una scrittura fluida e pulita, capace di rendere elegante anche il movimento di un piccolo trattore al lavoro. La trama,  dall’andamento incalzante e con vari colpi di scena ti rapisce fino alle ultime pagine. Ma sono le descrizioni dei vari personaggi, a partire dai protagonisti: Prudencia e Ed, e poi man mano tutti gli altri che con il loro carattere e le varie sfaccettature e personalità, determinano la ricchezza di questo bel romanzo. Al di là della trama, che lascerò scoprire ai lettori, questa intricata storia è un giardino dove cogliere riflessioni e pensieri, dubbi e determinazione, un giardino dove niente è scontato e tutto va conquistato. Ho colto anche molta poesia, che spunta da luoghi e panorami dove la protagonista si muove suo malgrado per districarsi dalle difficoltà. Panorami che Patrizia Baccarin pennella con dovizia di particolari, con il   suo bel modo di scrivere, attingendo alla passione e all’amore che è il fondamento di questo romanzo. Complimenti Patrizia, proprio un bell’esordio e auguri per i prossimi romanzi.

Tutte le mattine, aprendo la porta della chiesetta di Orascio, l’intenso profumo del cero che arde mi sorprende sempre e mi avvolge piacevolmente. Fa anche freddo e l’umidità è palpabile, saluto S. Giuseppe e il resto della sacra famiglia, poi ritorno verso casa. La porta aperta è un invito ad entrare, è un passaggio preferenziale e diretto per raggiungere una zona mistica. È accoglienza. I tre gradini che precedono il dentro dal fuori non sono ostacolo ma danno il senso alla volontà di entrare, è un attimo, si curiosa da fuori, poi bisogna decidere se salire e entrare, oppure restare fuori e proseguire la passeggiata. S. Giuseppe, comunque, dalla sua postazione fissa: sopraelevata e centrale rispetto all’altare maggiore, osserva chi passa fuori e accoglie chi entra. Non fa distinzioni fra residenti e villeggianti, ascolta persone di diverse nazioni e religioni. Ha visto affacciarsi nella chiesa testimoni di Geova e, seguaci di Padre Pio lasciare delle immaginette del Santo sulle panche. Si sentono tutti liberi di entrare in questa zona franca. Chi supplica, chi ringrazia, chi piange, chi prega, chi canta, tutti si confidano con S. Giuseppe, protettore del piccolo borgo di Orascio. Si fidano, certamente potrà capire, anche lui è stato su questa terra e conosce i problemi. Tutti si aspettano molto e Lui, penso, faccia quello che può. Anche i non credenti oltrepassano la porta il cui riquadro di serizzo sottolinea l’importanza del passaggio, lasciano un’offerta, accendono una candela, fanno considerazioni, rievocano ricordi, osservano, e in questo luogo ritrovano l’atmosfera dei tempi passati, magari quando erano chierichetti o partecipavano alle processioni Tutte le sere, andando verso la chiesetta di Orascio, è sempre la luce tremula del cero che mi guida nell’ oscurità, poi, in prossimità dei gradini, scatta la fotocellula e la luce elettrica rende impercettibile la fiammella del cero, e il suo profumo si è ormai stemperato all’esterno, ma il freddo e l’umidità sono rimasti. Quando richiudo la porta, saluto di nuovo S. Giuseppe e siccome mi dispiace chiuderlo dentro aggiungo: “Ci vediamo domani”. E sei io non potrò farlo lo faranno altre donne, come già tengono acceso sempre il cero e risistemano fiori freschi nei vasi, sostituiscono pile e tengono pulito tutto. Gli uomini sistemano cardini, aggiustano panche, cambiano tegole e regolano il battere delle ore della campana che è sempre un po’ in anticipo. La chiesetta di Orascio, per rimanere viva, necessita di attenzioni, amore, fatica, pazienza, dedizione e di una porta sempre aperta. Un po’ quello che servirebbe a tutti noi: attenzione, amore, dedizione e con un po’ di fatica e pazienza, potremmo sperare di trovare sempre una porta aperta che ci accolga, e che possa accogliere.

Mi piacerebbe parlare di questo libro con una mia amica, senza rivelargliene la trama, senza insistere sui personaggi principali, senza calcare la mano sulle evidenze. Mi piacerebbe dirle: “ È bello, leggilo, poi ne parliamo”.

Mi piacerebbe che anche alla mia amica piacesse riflettere su quello che ha letto e le venisse voglia di commentare, discuterne, di approfondire, di raccontarmi in quali punti del romanzo si è sentita completamente estranea o al contrario coinvolta. Quando ha sentito quella scossa che le ha fatto fare un salto, un salto che l’ha portata più avanti, o quando si è vergognata di appartenere alla razza umana.

Sono questi tipi di romanzi che mi fanno venire voglia di scriverne, condividerne i contenuti e soprattutto di conoscere che effetto abbiano fatto a voi. Mi piacerebbe farvi venire voglia di leggerlo e se lo avete già letto mi piacerebbe leggere i vostri commenti.

Portare… Farsi portare… Essere dentro… Sentire… La Mazzantini ci accompagna nel suo romanzo che è una storia di guerra e di amore, un amore strano e imperfetto da sembrare vero, è un presentarci etnie diverse, farcele conoscere quando vivevano in pace fra di loro, e dopo, durante la guerra . Molte volte, leggendo questo bel romanzo: “venuto al mondo” l’emozione mi è salita da dentro e si è fermata in gola formando un nodo che mi impediva di deglutire. I pensieri invece correvano veloci e scuri: terribile, atroce, angosciante, disumano. La Mazzantini mi ha portato in guerra, mi sono sentita in guerra, una guerra di cui avevo già letto e seguito in tv, una guerra che se pur vicina mi aveva trovata distante. Solo qualche zingara con la sua nenia: “ Vengo da Bosnia… aiutatemi” mi aveva fatto vergognare di non fare nulla.

Gemma è la protagonista di questa storia che si intreccia più volte: il presente con il passato, Roma con Serajevo. I mariti con gli amici, i tempi di pace con i tempi di guerra. Si affanna, lavora, si innamora appassionatamente di Diego, fotografo scapestrato; lo troveremo vivo e attivo sotto il tiro degli snipe a Serajevo e depresso a Roma con una scatoletta di tonno che ha fotografato per tutto il giorno. Poi… per Gemma… quella maternità sofferta, cercata a tutti i costi. E si troverà di nuovo sola e disperata, ma un uomo dell’Arma la proteggerà. In questo romanzo le persone anziane sono pennellate lievemente, senza eccessi, senza protagonismi, pennellate che comunque lasciano il segno. Mi sono commossa pensando al senso di colpa di una donna anziana che era ancora viva, quando tanti bambini erano già morti. Quando un anziano signore, dopo essersi vestito di tutto punto si è incamminato verso la sua università; il rispetto della moglie nei confronti della sua decisione, la loro complicità, il loro amore. Il romanzo, nonostante la guerra e tantissimi morti è pieno di amore, quasi a pareggiare i conti. I pensieri di Gemma, le riflessioni, i segreti, quello che vorrebbe dire, fanno da cassa armonica a tutto il racconto che prende un respiro o un affanno diverso ad ogni nuova situazione. È questo e molto altro il romanzo della Mazzantini che fino alle ultime pagine ti sorprende.

Più che un riassunto ho voluto raccontare cosa suscita questo romanzo, cosa ti lascia, le frasi che non vorresti dimenticare, le situazioni che mai avresti pensato di vivere e quelle che invece pur non appartenendoti ti fanno riflettere. Possibilità nuove, fuori dai tuoi orizzonti. Mi si è aggiunto un pezzo di mondo.

Dalla quarta di copertina:

Una mattina Gemma lascia a terra la sua vita ordinaria e sale su un aereo, trascinandosi dietro un figlio, Pietro, un ragazzo di 16 anni………


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Si immagina che un libro il cui contenuto tratti di argomenti storici debba essere: noioso e pesante.Personalmente ho letto molto della Bellonci e mi ha sempre stupito la sua capacità di rendere la storia con la esse maiuscola così fruibile.

Leggere il romanzo storico di Luciana Benotto: L’arme e gli amori io canto, è stata una vera rivelazione, un piacere iniziato fin dalle prime pagine, mai un momento in cui ti venisse voglia di interrompere la lettura. La ricostruzione storica è precisa, dei personaggi non è stato tralasciato nulla: l’aspetto fisico, i malanni, le ambizioni, i desideri, i dubbi le paure, le miserie, le passioni e gli amori. L’intreccio è incalzante e ricco di particolari interessanti, le azioni, a tratti cruente possono svolgersi in momenti di dolcezza e  l’autrice facendoci partecipi della sua storia ci regala anche momenti di poesia. Passeggiamo con lei per le calli di Venezia, e ci stupisce mettendoci al corrente dei rimedi che già gli speziali veneziani proponevano ai loro clienti. Ci racconta della manualità degli artigiani,  della bravura degli artisti. Non mancano le  difficoltà degli spostamenti, e la  vita dura che si alterna con lo splendore  e la raffinatezza dei doni, delle feste e delle corti del rinascimento.

Il romanzo: L’arme e gli amori io canto è un libro colto senza essere pedante, a piè pagina ci sono tutte le indicazioni storiche che permetteranno al lettore di approfondire la lettura se lo desidera.

E a questo punto io desidero leggere gli altri libri che ha scritto  Luciana Benotto, nella speranza che mi facciano volare lontana come è successo con questo bel romanzo.


Il libro di Maria Fedele e Mary Nicole si presenta egregiamente: prima e quarta di copertina riportano graziosi e variopinti disegni eseguiti da Claudia Mesa e Michele Finelli , per rappresentare le fiabe descritte al suo interno. I fogli sono di carta patinata in una rilegatura impeccabile. La grandezza del carattere usato è particolarmente grande e…. per una nonna che debba leggere queste storie ai nipotini è piacevole. Penso anche che sarà perfetta per quei bambini che già leggono da soli. Ma si farebbe un torto alle due autrici se si riducesse questo libro ad un’utenza così limitata. E’ infatti chiaro fin dal titolo del libro: “Piccole fiabe crescono ” che i racconti hanno diverse chiavi di lettura, per cui il libro di Maria Fedele e Mary Nicole è destinato a tutto quel pubblico che pensa ci possa essere sempre un’occasione per Crescere. Per la presentazione di questo libro le due autrici si sono affidate alle parole di un autore di eccezione e… non vi dirò nulla, a voi il piacere di scoprirle.

Si dividono il libro le due autrici: sei racconti per Mary Nicole e cinque per Maria Fedele.

La prima le intitola: Fiabe dal recinto, e già questo recinto io l’ho interpretato come un abbraccio, un abbraccio amorevole che protegge, consola ma insegna anche ad affrontare le diversità, come in: “Un gradevole intruso” e “La vita scorre”. Dove la mamma scrofa salva ed accudisce un piccolo riccio. Dove allontanarsi dal recinto vuol dire anche crescere ed allargare la famiglia. Mary Nicole affronta con garbo anche il tema dell’emigrazione dal punto di vista dei bambini, descrive la nostalgia di Al per la sua terra d’Africa e il suo integrarsi in: “Si parte” e in: “100”. Altre storie, come quella della gattina Minù che dovrà vedersela con un cagnolino, mettono in evidenza problematiche come l’egoismo e l’incapacità di capire gli altri. La scrittura di Mary Nicole è scorrevole, chiara, piacevole, i suoi racconti sono come la sua biografia: pieni di persone care, amici e amore. Ha cominciato a scrivere poesie a 6 anni e a 15 vinceva concorsi letterari, ha pubblicato diversi libri tra cui: “Padparadshah. Rosa D’asfalto” edito da Arcipelago Edizioni nel novembre 2004. Membro dell’Antologia “IncastRIMEtrici vol.1edito nel 2006 e autrice del libro “Ultima cena di Mary Nicol, in download gratuito su www.lulu.com/content/2282314.

Per Maria Fedele  è:”La prima volta che pubblica dei racconti” e se non ci avessero informati nella biografia non ce ne saremmo accorti perché la sua scrittura è diretta, espressiva e priva di fronzoli. Anche i sui racconti parlano di animali e danno il titolo a questo libro “Piccole fiabe crescono”. L’ippopotamo Gelsomino, la cui mole gli procurerà non pochi problemi, si troverà alla fine della fiaba ad essere leggero come una farfalla e…solo leggendo il racconto si capirà come sia potuto succedere. L’autrice descrive puntigliosamente la caparbietà della tartaruga Eloisa che vuole assolutamente raggiungere la cima della montagna. Sembra solo una fatica, affrontata in solitudine, gli amici vorrebbero aiutarla ma lei vuole la sua libertà. E’ una dura Eloisa, come il suo carapace. L’autrice ad un certo punto la descrive così: “Ma Eloisa era la testuggine più testarda del pianeta, quindi impettita non tornò indietro, avrebbe perso del tempo prezioso e poi oramai la meta era lì a portata di mano. Non fece però i conti con il freddo glaciale che la costrinse sempre più spesso a rifugiarsi in se stessa, nella sua armatura, così consueta, conosciuta, così solita e familiare, da cui poteva ricevere protezione, sicurezza e sopravvivenza”. Riuscirà Eloisa a raggiungere la vetta? e poi? I finali delle fiabe di Maria Fedele sono sempre ben studiati. Altri animali popolano le sue fantasiose fiabe: La lucciola Caterina che scopre di essere una veggente e il topo Ernesto che dopo aver raggiunto la luna, tornerà coi piedi per terra. Pagine piene di dolcezza sono quelle dedicate alla favola “Brava Giulia”. La protagonista interpreta il desiderio di volare, comune a molti bambini e l’autrice risolve il problema con maestria. Anche qui il finale è pirotecnico! Fra le righe, anche nei racconti di Maria Fedele, troviamo ineguatezza e accettazione, incapacità di ascolto ed egoismo, paure e felicità.

“Piccole fiabe crescono” Maria Fedele & Mary Nicole

Ma siamo sicuri che siano solo fiabe?

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Ci sperava poco: Assistere alla Turandot presentandosi alla cassa del Teatro Coccia poco prima dell’inizio dell’opera senza nemmeno una prenotazione, e invece…” E’ fortunata Signora, c’è stata una rinuncia ed è disponibile un biglietto in un palco centrale  con un notevole sconto”.

La trama dell’opera la Signora Narrini la ricordava così: Una giovane badante di nome Liù accompagna un anziano signore (per altro cieco) a vedere la decapitazione del principe di Persia. La confusione quel giorno a Pechino è molta e quando la strana coppia viene travolta dalla folla il Principe Calaf (che dovrebbe essere in esilio e forse anche morto) aiuta l’anziano a rialzarsi e… guardandolo si accorge trattarsi di Timur, suo padre. La badante gli spiega che si era subito presa cura dell’anziano signore da quando era diventato cieco semplicemente perchè lui Calaf una volta le aveva sorriso.

Calaf invece si innamora a prima vista di Turandot, la cattivissima regina che condanna a morte tutti i principi che la vorrebbero sposare ma  non sono in grado di svelare gli indovinelli che lei propone. Non che  Turandot odiasse gli uomini o fosse lesbica, quella sua crudeltà era un modo per vendicare una sua antenata che era stata violentata ed ammazzata da un re barbaro.

Tutti mettono in guardia Calaf: Liù che lo ama perdutamente, il padre che lo ha appena ritrovato e teme di perderlo di nuovo e poi ci sono anche i tre ministri dell’imperatore: Ping, Pong, Pang.

Ma lui niente, non da retta a nessuno, nemmeno al papi di Turandot che lo scongiura di rinunciare alla figlia. Calaf non molla, accetta la sfida e per tranquillizzare tutti dice: VINCERÒ, VINCERÒ, VIINCEEROOÒ. E vince davvero, risolvendo i tre  indovinelli. Turandot è spiazzata non vuole assolutamente sposare il principe ma e obbligata dal parde a mantenere il giuramento.

A questo punto il futuro sposo (che è un signore) propone a sua volta un indovinello a Turandot: Se riuscirà a scoprire il suo nome prima dell’alba, lui morirà; altrimenti dovrà accettarlo come sposo.

Turandot farà di tutto per estorcere il nome di quel principe e Liù sotto tortura pur  di non tradire colui che ama si ucciderà! Questo fatto sconvolgerà Turandot che già attratta dal principe si farà baciare da lui che le sussurrerà il proprio nome. Lei annuncia di conoscere il nome dello straniero:” Amore”. E vissero felici e contenti.

La Signora Narrini si sta godendo l’opera, e il momento più commovente: Liù si è pugnalata e adesso sta morendo, la melodia pucciniana l’avvolge teneramente.

Cala il sipario e partono gli applausi.

No, no, l’opera non è finita, non finisce così, la Signora Narrini si agita sulla sua poltroncina, cerca disperatamente una conferma nel suo libretto e la trova: Nell’edizione proposta dal Teatro Coccia l’opera viene eseguita fino alla morte di Liù, ossia fino al punto in cui Puccini lasciò la stessa incompiuta, così come avvenne alla prima esecuzione presso il Teatro alla Scala con la direzione del Maestro Toscanini.”

A… ecco il motivo, adesso era tutto chiaro e Il biglietto scontato che si ritrovò nelle mani infilandole nel soprabito  era in perfetta  sincronia con l’opera incompiuta.

PS. I ricordi della Signora Narrini a proposito della trama del dramma sono incompleti e…Liù non è una  badante ma… una schiava.

Sarà un lapsus?


Non ha certo bisogno di presentazioni Gian Antonio Stella , e quando nel 2005 ha pubblicato: Il maestro magro, come per  molte altre  novità non mi sono precipitata a leggerlo anche  perché mi era sfuggito che non si trattasse di politica.

Il maestro magro visto sotto questa nuova luce di romanzo mi ha intrigata e le quattro righe in prima di copertina hanno fatto il resto. Si aggiunga poi il suggerimento della rubrica radiofonica: Il bel vizio di leggere. A questo punto le aspettative che riponevo in questo romanzo erano molte e… sono state ampiamente soddisfatte. Non è a mio avviso solo un  romanzo, sono tantissimi racconti sapientemente intrecciati tra di loro con una scrittura scorrevole e suggestiva.

L’incontro  dei due  protagonisti: Osto siciliano e Ines veneta, non sono che l’inizio di una carrellata di persone che si dipanano dal sud al nord  nell’Italia del dopo guerra.

Tra gli anni  cinquanta e sessanta, si viaggia molto in treno, con valige di cartone, si mescolano non solo  odori di aglio e  pecorino, dialetti e fisionomie, ma anche  modi diversi di vivere e pensare.

Un’ umanità variegata si sposta dalle sue terre d’origine alla ricerca di speranze e  pane. Arrivano dal Veneto  gli sfollati del Polesine e  dal sud altri disperati cercano lavoro al nord.

Non sarà difficile per quelli che hanno vissuto quegli anni riconoscere nei  propri vicini di casa quegli  sfollati o i compagni di scuola meridionali e…  maestri di scuola  siciliani.

Per i giovani invece potrà essere la scoperta di un’Italia poverissima, ma piena di entusiasmo, che trova via via, fino al bum degli anni sessanta, la voglia di riscatto e di benessere.

E’ in questa cornice che il maestro  Ariosto Aliquò detto Osto, deve man mano prendere decisioni, affrontare problemi, ascoltare miserie umane e sorridere anche per situazioni inverosimili.

La sua compagna Ines è una donna forte, temprata dalle vicissitudini della vita che fin da giovane l’hanno resa vedova di guerra con un figlio da crescere. E’ anche ironica e il suo imprecare in veneto o l’apostrofare il marito con il nomignolo “Moro” la rendono simpatica.

La tenerezza del loro amore è a prova dell’ignoranza e del bigottismo altrui.

Convivono in questo romanzo oltre a camorristi e preti infingardi anche  medici ruffiani e assassini col mal di denti,  un albero di carrubo dei giardini di  Naxos e il profumo dei dollari californiani. Troviamo venditori di illusioni e un  guardiano di faro che chissà perché non dipinge mai il mare e il cielo.

Ogni capitolo è una  miniera di aneddoti, situazioni e personaggi. E… proprio uno di questi, permetterà ai racconti vari, paradossalmente veri, di diventare nel finale  un autentico romanzo.

Il più delle volte, le nostre aspettative ci tirano brutti scherzi, lasciandoci delusi e insoddisfatti, questa volta è andata bene!