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Probabilmente è una storia conosciuta da molti, anche se si è svolta fuori dall’ Italia ed è collocata nel passato. I suoi protagonisti sono molteplici e i fatti abbracciano l’arte e purtroppo anche la tragedia dell’olocausto. Insomma una trama complicata ma tanto affascinante da farmi venire voglia di raccontartela. Ma… potrei sbagliare un nome o dimenticare una data oppure omettere un fatto cruciale, e… siccome la storia è vera, la responsabilità è tanta. Quindi, questa storia, di cui ho appena visto il film “Donna in oro”, cercherò di riassumerla qui per iscritto e… pazienza se altri la conoscono già.

Non avere discendenti maschi è stato un problema che non ha riguardato solo le famiglie reali. Nel nostro caso, per accontentare il banchiere Moriz Bauer che non aveva avuto figli maschi, la famiglia della figlia, Maria Teresa Bauer, sposando Gustav Bloch amplil cognome in Bloch-Bauer. La ricca famiglia ebraica dei Bloch-Bauer viveva in pace e d’accordo nella stessa palazzina al centro di Vienna con il fratello Ferdinand sposato ad Adele Bauer; questi ultimi si occupavano dell’industria dello zucchero, ereditata dal padre di Ferdinand, e non ebbero figli, mentre Gustav Bloch era avvocato e con la moglie Maria Teresa aveva avuto 3 figli: Leopold, Luis, e Maria; Maria in particolare era molto affezionata alla zia Adele, che dal canto suo non mancava di affetto ed attenzioni per lei. Tutti in famiglia erano appassionati di arte e musica: a casa loro si riunivano, oltre che a politici influenti, anche artisti del calibro di Johannes Brahms, Richard Strauss, Wagner, Gustav Klimt e molti altri. Siamo all’incirca nei primi del ‘900.

Ti ricordi la stampa del quadro Il Bacio di Gustav Klimt appesa in camera? Questo pittore è importante per questa storia. E… le altre due stampe con i mosaici di Ravenna? Anche quelli c’entrano, perchè Klimt, dopo essere andato a Ravenna per due volte nel 1903, rimane affascinato dai suoi maestosi mosaici bizantini e dall’oro musivo che gli ricordano i lavori del padre e del fratello, che erano orafi. Questa esperienza cambierà il suo modo di dipingere: verrà chiamato il suo periodo d’oro. A Vienna è il 1907 quando la signora Adele BlochBauer commissiona al pittore Gustav Klimt un suo ritratto che diventerà famosissimo, forse più del Bacio che conosci tu, perchè fu al centro di una storia rocambolesca, che si concluse solo nel 2006… quando tu compivi 2 anni!

Chi? Dove? Come? Quando? Perchè? Queste erano le nostre regole per inventare storie quando eri piccola, una io e una tu. Se la storia non rispondeva a tutte le domande, non era valida.

Ma chi è il soggetto di questa storia? Gustav Klimt che dipinse il quadro? Adele Bloch-Bauer che ne fu modella e committente? Il quadro stesso? O chi altri, visti i personaggi già citati e altri ancora che verranno?

Per capire, bisogna tornare in casa Bloch-Bauer, e osservare la timida e piccola Maria, che viene invitata dalla zia Adele ad allacciarle al collo una sontuosa e particolarissima collana tempestata di pietre preziose, la stessa collana indossata nel ritratto eseguito da Klimt, che troneggia sulla parete del salone. La zia non ha figli e Maria è la sua prediletta: le parla, l’ ascolta e la sprona a non aver paura. Quando la zia Adele morirà prematuramente di meningite nel 1925, Maria ha 9 anni e la sua perdita le peserà tantissimo. Gli anni passano, siamo nel 1937, il clima politico è ostile agli ebrei e lo zio paterno di Maria, Ferdinand, fugge prima in Cecoslovacchia e, all’incalzare dei nazisti ripiega in Svizzera dove presso una banca, tramite un fondo fiduciario, trasferisce tutti i suoi interessi pensandoli al sicuro. Non sarà così perchè la banca svizzera, anziché proteggere i suoi beni, li cederà sotto pressione del governo austriaco a persone di fidata razza ariana. Ferdinand prima di fuggire sprona il fratello Gustav a fare altrettanto, ma questi, incredulo di quello che sta già succedendo, rimane in balia della barbarie nazista. Maria, il giorno prima che lo zio parta, si sposa con Frederick Altmann, un cantante lirico. Il matrimonio è celebrato con grande sfarzo in casa Bloch-Bauer. Terminata la cerimonia Maria Altmann riceve dallo zio Ferdinand come regalo di nozze la famosa collana della zia Adele. Gli sposi partono in viaggio di nozze per Parigi, ma quando tornano la situazione è precipitata; anche il fratello di Frederick, Bernhard Altmann, è fuggito in Inghilterra lasciandogli la gestione della sua fiorente industria tessile. Sono momenti tremendi: i nazisti terrorizzano, uccidono, torturano, deportano, fanno prigionieri; ricattano Maria, deportando a Dachau suo marito, al fine di accaparrarsi tutti i beni di famiglia. Anche Palais Elisabethen dei Block-Bauer nel 1939 viene derubato di tutto. I quadri finiranno in collezioni private e ne beneficiarono anche il dittatore Hitler e il generale Göring. Il resto fu venduto. Alcuni quadri di Klimt, compreso il ritratto di Adele Blok-Bauer, finirono alla Galleria Belvedere di Vienna dopo vari passaggi.

Non c’è più tempo… se vogliono sopravvivere i giovani sposi devono fuggire subito. Solo nel 1941, dopo diversi trasferimenti, riescono finalmente a stabilirsi negli Stati Uniti, dove, nel 1945, otterranno la cittadinanza statunitense. Due anni prima il cognato Bernhard Altmann, anche lui negli Stati Uniti dal 1939, avvia un’attività tessile nella quale coinvolge, per la vendita dei capi in cashmere, anche Maria e il fratello. Gli affari vanno benissimo per tutta la famiglia, ma quando nel 1955 Bernhard si ritira, a Maria non resta che il suo negozio di abbigliamento. Con suo marito cresce i tre figli e la sua vita si avvia alla normalità. Le tragedie delle persecuzioni antisemite sono finite, e nonostante tutto lei si ritiene fortunata perchè ne è uscita viva.

Alla luce di quello che ti ho raccontato fino adesso, alla domanda: “Chi?” Posso risponderti: “Per il momento è Maria la protagonista”. Ma la storia continua. Alla domanda: “Dove?” E’ più facile risponderti: “Siamo partiti da Vienna, un viaggio di nozze a Parigi, deportazioni a Dachau e per fuggire dai nazisti altri spostamenti in Svizzera, in Inghilterra, negli Stati Uniti, e come vedremo più avanti anche il Canada e nei dintorni di Praga. Ma sarà Vienna il luogo prescelto e per più di un motivo. Anche se la nostra protagonista Maria Altmann aveva giurato che non ci sarebbe mai più tornata”.

La guerra è finita e Leopold, fratello di Maria, che si era rifugiato con la mamma a Vancouver in Canada, tenta di recuperare i beni di famiglia, ma a Vienna non vogliono sentire ragioni e i suoi tentativi andranno falliti. Bisognerà arrivare al 1998, quando il giornalista austriaco Hubertus Czernin, potendo consultare gli archivi del Ministro della Cultura, viene a capo di un mistero che fino a quel momento aveva impedito ai Bloch-Bauer di tornare in possesso del dipinto di Gustav Klimt intitolato: “Ritratto di Adele Bloch-Bauer”. Hubertus scrive un libro nel quale si scopre che il proprietario del quadro è ancora lo zio di Maria Altmann, Ferdinand, anche se sua moglie Ada avrebbe voluto lasciarlo in eredità alla Galleria del Belvedere di Vienna; ma Ada era morta nel 1925 quando il quadro ancora apparteneva alla ricchissima dinastia degli industriali Bloch di origine ebraica. Mai Ada avrebbe immaginato gli orrori della guerra e che i nazisti, dopo il furto, avrebbero cambiato il titolo al suo ritratto, perchè lei era ebrea, chiamandolo “La donna in oro”. Mai avrebbe immaginato che la sua collana, ritratta nel quadro, finisse sul collo della moglie del generale tedesco Göring.

Non tutto è perduto, pensò Maria Altmann quando venne a conoscenza di questi fatti, tanto più che lo zio Ferdinand, spogliato di tutto dai nazisti, aveva comunque, prima di morire, fatto testamento: aveva lasciato tutto ai 3 nipoti, compreso un castello fuori Praga che gli era stato confiscato dal generale tedesco Reinhard. Non tutto è perduto, continuò a pensare Maria, quando venne a conoscenza del fatto che il governo austriaco, per cercare di rimediare ai furti perpetrati dai nazisti ai danni degli ebrei, permetteva la restituzione delle opere d’arte. E qui di seguito il “Come” Maria si impegnò a rientrare in possesso del ritratto della zia Ada. La pubblicazione del libro di Hubertus Czernin la fece illudere che presto avrebbe ottenuto quello che voleva, anche perchè ormai aveva 83 anni. Per risolvere la questione si affidò al giovane avvocato Randol Schonberg, persona fidata, perchè figlio di amici e nipote di un famoso compositore ebreo, anche lui fuggito da Vienna. Maria pensava di cavarsela inviando l’avvocato a Vienna e, quando capì che la sua presenza sarebbe stata indispensabile, tutti i fantasmi del passato si ripresentarono e dovette fare appello a tutte le sue forze per ritornare di nuovo a Vienna. In quell’aula, quel giorno, erano in molti gli ebrei che rivendicavano il possesso dei loro averi: tutti raccontarono con molta fatica cosa fosse successo e in che modo fossero stati derubati di tutto: per primo ci tolsero la dignità, poi l’identità culturale, la libertà e i beni terreni. Altri raccontarono delle vite dei loro parenti rubate per sempre, altri ancora viaggiando nei ricordi del passato non poterono fare a meno di piangere. Quando a parlare toccò a Maria Altmann, fece un discorso lucido e concreto; disse fra l’altro che avrebbe donato volentieri alla Galleria del Belvedere di Vienna il quadro della zia Adele, essendo questo un simbolo per Vienna, ma che voleva le fossero restituiti tutti gli altri. Il comitato per la restituizione rifiutò la sua offerta e le propose in cambio dei bozzetti di Klimt e delle ceramiche. Maria rimase esterefatta e chiese al suo giovane avvocato di intraprendere un’azione legale contro il governo austriaco. Ma il governo pretendeva una tassa di deposito esorbitante, visto il valore dei quadri contesi. Non disponendo di quella cifra, Maria rinunciò all’azione legale e tornò negli Stati Uniti con il suo giovane avvocato.

La storia non è ancora finita e vorrei soffermarmi su di un preciso momento di questa complicata avventura, rispondendo così alla domanda “Quando?” E’ chiaro che le date sono tante e anche molto importanti se pensiamo all’avvento del nazismo, o alla fine della guerra e a molti altri eventi; c’è infine un momento in cui il giovane avvocato Randol Schonberg rimarrà sconvolto tanto da sentirsi male fisicamente. Rientrato negli Stati Uniti dirà alla moglie: “E’ successo qualcosa a Vienna, ho vissuto attraverso i ricordi dei sopravvisuti dell’olocausto delle emozioni fortissime, solo adesso ho capito, anche se già sapevo tutto.” E’ in quel preciso momento, cara nipote, che attraverso la memoria diretta dei sopravvissuti lui prende coscienza, si sente partecipe, soffre, e finalmente capisce. Non sempre sapere vuol dire capire, e se attraverso la memoria possiamo capire, puoi immaginare quanto sia stato importante quel momento e quanto sia importante la memoria: Per primo ci tolsero la libertà, la dignità, l’identità culturale e i beni terreni. Altri raccontarono delle vite dei loro rubate per sempre, altri ancora viaggiando nel ricordo del passato non poterono fare a meno di piangere. Per Randol Schonberg, giovane e inesperto avvocato, non sarà più una questione di vincere o perdere, non importano i soldi, non importa il suo prestigio, vuole giustizia. Quando finalmente trova un modo per far svolgere il processo negli Stati Uniti la signora Maria Altman ha 88 anni e lui si rende conto che non c’è tempo da perdere e propone perciò un arbitrato da tenersi a Vienna. In pratica, tre persone si riuniscono, leggono le ragioni delle due parti e poi decidono, naturalmente una persona a favore della Altman, una a favore del governo austriaco e una terza neutrale. Il giovane avvocato non scrive, fa un discorso, talmente toccante da far decidere che Maria Altmann ha ragione e le saranno restituiti tutti i suoi quadri. La storia è finita, ma in realtà è molto più complicata di come l’ho raccontata, perchè forse avevo paura di annoiarti, ma se ti piacesse saperne di più, fai come me che dopo aver visto il film “Donna in oro” ho trovato in rete il Blog: “Da Vinci Experience”, che racconta dettagliatamente questa storia. E meno male, altrimenti come avrei fatto a ricordarmi tutti i passaggi, i nomi e le date!

Chi? Come? Dove? Quando? Questa storia non è ancora valida, devo ancora rispondere alla domanda più difficile, perchè la guerra?

Sono talmente tante le risposte che non saprei da che parte incominciare, eppure sappi, che alcune guerre sono state scatenate inventandone il motivo, solo perchè le si voleva combattere. Nessuna ragione può essere valida per muovere guerra contro altre nazioni, nessuna, e, fra l’altro, quelli che decidono le guerre mandano gli altri a combatterle.

Sulle guerre posso dirti solo una cosa: è solo prima che si possono evitare. Ti assicuro che ci vuole molto coraggio anche per questo. Non è un caso che i primi morti voluti da Hitler, nella seconda guerra mondiale, fossero proprio i suoi connazionali che gli si opponevano. Loro avevano capito e sapevano quanto sarebbe stato pericoloso. E oggi? Come nonna mi sento in dovere di avvisarti: E’ la difesa della nostra democrazia che non ci farà ricadere nella dittatura. E’ la cultura, la libertà di informazione, è il sapere che ci permette di capire e valutare per il meglio; ma questo non basta. Bisogna impegnarsi affinchè l’ignoranza non trionfi, bisogna non sottovalutare cori razzisti indegni, episodi esecrabili: chi li commette ignora, non sa, non ha memoria. Non può l’ignoranza crescere, unirsi in gruppo e per questo sentirsi forte ed orgogliosa. L’ignoranza è solo una fabbrica di pecoroni pericolosissimi. Perchè tanta ferocia nei confronti degli ebrei? Questa è una domanda che mi facevo anch’io da ragazzina. Nel frattempo ho visto un sacco di documentari e letto molti libri in proposito. In Germania gli ebrei, prima della guerra, occupavano posti importanti, erano industriali, banchieri, professori universitari, erano ricchi e questo non andava bene ad Hitler che con la scusa della razza ariana li ha derubati di tutto. E’ brutto dirlo, ma i treni che partivano per i campi di concentramento stipati di ebrei ritornavano pieni di merce che gli era stata sottratta. Ed è solo una briciola di quello che i nazisti gli hanno rubato. Questo è solo un particolare, ma la ferocia agghiacciante, quella, è stata disumana e non c’è un perchè che lo giustifichi. Oggi, non dimenticarlo, tenere viva la memoria, potrà forse evitare altre catastrofi come quella dell’olocausto.

Questa storia mi ha dato l’opportunità di parlarti non tanto della guerra, ma di come sia importante darsi da fare per evitarla. Ma la parte più leggera del racconto riguarda Gustav Klimt. E siccome ultimamente mi hai raccontato con entusiasmo come a scuola ti abbiano insegnato a leggere e riconoscere un quadro impressionista, sono certa che troverai interessanti alcune notizie su di un gruppo di giovani artisti che a Vienna nel 1897 fondarono “La secessione Viennese”. Devi sapere che il pittore Gustav Klimt, nel 1888 era già considerato un bravissimo pittore tanto da ricevere dal suo imperatore Francesco Giuseppe una benemerenza ufficiale. Ma lui, cercò sempre di migliorarsi, di trovare nuovi modi per esprimersi e con un gruppo di amici nel 1897 fondò “Il secessionismo viennese”, Un’arte fuori dalla classicità contemporanea, controcorrente ed innovativa. Naturalmente furono criticati per questo, ma loro perseverarono in quello in cui credevano, tanto che il palazzo della secessione Viennese progettato dal giovane architetto Joseph Maria Olbrich fu deriso, sbeffeggiato e paragonato ad “un gabinetto”. Oggi è il museo più visitato a Vienna!

Se vuoi, adesso tocca a te, le regole sono le stesse: Chi? Come? Dove? Quando ? Perchè? Sarò felice di ospitarti sul blog.

Bacioni nonna Lella

Il 27 Dicembre 1947, 70 anni fa, avveniva la promulgazione della Costituzione della Repubblica Italiana. Che sorpresa, che onorelo avevo conosciuto attraverso le pagine di Repubblica e ascoltato nella trasmissione Babele e adesso era lì davanti a me. Ma come è stato possibile!? Una sera, esattamente il 14 novembre, mentre ascoltavo la musica di Piovani ed ero comodamente seduta in poltrona un fascio di luce illuminava la prima pagina del suo libro che tenevo sulle gambe. Sono bastate poche righe e il tono confidenziale della sua scrittura mi ha affascinata. Come se mi fosse seduto accanto e cominciasse il suo discorso scusandosi per averlo scritto, questo libro… forse lo si sarebbe preso per un esibizionista o, ancora peggio, avrebbe corso il rischio di essere noioso…ma la tentazione di raccontare, mi confidava, era stata forte e aveva dovuto seguirla. Continuavo a leggere rapita da tanta spontanetà e già pensavo:Ma figuriamoci, Corrado Augias noioso, esibizionista? Mi veniva voglia di incoraggiarlo: “su… su… non faccia così, una persona a modo come lei, con la sua esperienza, cultura e capacità professionale può solo far bene” Avevo ragione! Il suo ultimo libro intitolato “Questa nostra Italia-luoghi del cuore e della memoria” è uno di quei libri di cui, una volta aperti, non vorresti mai interromperne la lettura. Parla delle città italiane, ripercorre la loro storia, racconta dei tesori d’arte e con la convivialità che lo contraddistingue ci fa partecipi dei suoi ricordi d’infanzia legati al dopoguerra. La storia con la esse maiuscola è sempre ben documentata con dovizie di date, nomi e fatti. Si parla molto d’Italia, di Italiani e di concetto di patria. Scrive a un certo punto, come ad interrompere il discorso, un capitolo dal titolo: “A tavola!” Ma è sempre d Italia e di Italiani che si parla, delle loro diversità e delle loro varie ricchezze. Ho preso un sacco di appunti prima di scrivere questo pezzo: Torino la misteriosa, Milano e Giorgio Gaber, Venezia e il Bucintoro, Trieste, Gorizia e qui l’autore non manca di togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Genova con i suoi cantautori. Riporta una lettera di Leopardi inviata al padre a Recanati in cui è chiaro il suo sconcerto per gli intellettuali romani di quell’epoca. Approccia Firenze nel 1865-1870 quando è stata capitale del Regno d’Italia, prosegue con Machiavelli e tutti i suoi altri Grandi. Un capitolo è dedicato alle città umbre, ai suoi boschi e colline. C’è la Bologna turrita di Giosuè Carducci e tutto quello che la città ha valorizzato; Augias la confronta con Roma, che non ha saputo fare altrettanto. Non mancano pagine sulle stagioni dei cambiamenti: nell’editoria l’avvento di Rai 3 e del quotidiano la Repubblica, gli anni 60, il Vietnam, la liberazione delle donne e molti altri avvenimenti. Infine: Rimpianti e nostalgie anche per persone e luoghi di cui non ha parlato. Non mancano foto e un nostalgico profumo di bachelite. Insomma, tutti appunti che non è il caso che approfondisca perchè Corrado Augias nelle 343 pagine di “Questa nostra Italia” assolve egregiamente a questo compito dopo aver consultato documenti, visitato città, musei, chiese, e aver letto libri per tutta la sua lunga vita. Riporto solo dal testo poche righe a proposito di Palermo e Napoli ” Anche Palermo, come Napoli, è definita dalla contraddizione. Le due vecchie capitali del regno borbonico in questo sono uguali o meglio: sembrano uguali perchè in realtà le rispettive contraddizioni sono diverse…”. Riporto anche dalla quarta di copertina: Perché possiamo dirci italiani? A settant’anni dalla firma della Costituzione, Corrado Augias compie un viaggio nei luoghi della nostra memoria collettiva e in quelli del suo cuore. E scrive il suo libro più personale. Un’opera civile e insieme intima, che scava alla ricerca di un’identità le cui radici affondano nei mille diversi volti di un paese grande,bellissimo e tormentato. Ecco, se anche a voi, come a me, piacciono la storia, la geografia, l’arte , la musica, la letteratura e volete passare qualche serata con Corrado Augias non dovete fare altro che leggere il suo ultimo libro “Questa nostra Italia-luoghi del cuore e della memoria” Sappiatemi dire se vi è piaciuto

A casa della mia amica Stella, il libro è appoggiato sui gradini che portano alla camera da letto, storgo il collo per leggere il titolo: “L’eleganza del riccio”, di Muriel Barbery. Stella mi assicura che è un libro bellissimo. Me lo avrebbe consigliato se io non l’avessi informata: ” Me lo ha già passato  mia nuora”. Lei  ne è rimasta affascinata, lo ha letto in tre sere. A quanto pare quello che c’è scritto in  quarta di copertina continua ancora: il passaparola funziona e non è un caso che questo romanzo  abbia vinto il Premio dei Librai assegnato dalle librerie.

Confermo, il libro è bellissimo! Di una bellezza particolare, autentica e rivelatrice. Muriel Barbery ci svela la verità su due personaggi che sembrano molti diversi l’una dall’altra: Renèe la portinaia e Paloma l’adolescente che vivono nello stesso  palazzo, abitato da famiglie dell’alta borghesia. Ognuna delle due protagoniste, per motivi diversi, nasconde la propria natura. La vicenda si svolge a Parigi, ma una storia così poteva essere ambientata dovunque perché ovunque il seme  dell’infelicità e della solitudine attecchisce dall’indifferenza, dalla falsità e dai pregiudizi altrui. I due personaggi, s’incontreranno grazie ad una terza persona che intuisce il segreto della  portinaia.

Il bello di questo romanzo sono i pensieri di una ragazzina che scrive un diario in previsione di un suo imminente suicidio. Osserva gli adulti, gli fa la radiografia e poi emette il suo  verdetto! Strada facendo ci mostra attraverso la sua spietata ma esatta analisi l’ipocrisia del mondo. Sconcerta a volte la lucidità di questa dodicenne, anche se l’autrice ci informa che Paloma è particolarmente intelligente.

Il bello di questo romanzo sono i pensieri di una colta  portinaia autodidatta  che si costringe ad apparire sciatta, sciocca ed ignorante agli occhi dell’alta borghesia, che  solo così si aspettano che sia. Ed è un vero peccato non aver potuto godere appieno delle sottigliezze di una portinaia veramente erudita. Troppo erudita per me! (Vedrò di rimediare). E’ comunque un vero piacere trovare in queste pagine l’emozioni che può darti l’ascolto di un coro o lo sguardo su di un quadro. La bellezza dell’arte è descritta con capacità di sintesi, eleganza e delicatezza.

Il romanzo scorre veloce, i vari personaggi si alternano sulla scena, a volte scompaiono come Jean Arthens, per poi rientrare e farci scoprire che la vita può rinascere. Il finale è un capolavoro e la nostra adolescente………

Muriel Barbery con questo romanzo da la scossa all’ipocrisia ed esalta la semplicità della bellezza. A volte… con una semplice camelia


Le motivazioni sono forti e quello che hai visto non riesci a cancellarlo: ti ricordi la penombra, la serata tiepida, la gente che passa frettolosa e quel pensiero:” Ma cosa sta facendo?”. La necessità di scrivere sorge spontanea, ma trovare le parole giuste per raccontarlo è stato difficile. Come tutte le prove difficili, conclusa la stesura del racconto:” Il biglietto di Lucia”, mi sono sentita serena. Racconto tratto dal libro: “Strettamente Personale” IL BIGLIETTO DI LUCIA Preambolo Un ragazzo accovacciato nella penombra di un androne, forse si stava drogando. Il peggio è stato voler credere che così non fosse. Comincia tutto come una molla che va caricandosi: immagine su immagine, parola con parola, pensiero dopo pensiero. Quello che succede sembra che non ti riguardi, non ti viene nemmeno in mente che possa toccarti personalmente. Poi, quando la molla è a fine corsa e scatta, ti colpisce con tutta la sua forza, ti lacera, ti fa male, ti fa piangere e soprattutto ti fa riflettere. E a quel punto non sei ancora in pace per inventare, per raccontare, per scrivere, per dare corpo. Ci vorrà del tempo per elaborare tutta la tristezza, molto tempo, perché… la Vita lo merita. Era penoso ritrovare quel biglietto disegnato a mano: un gattino piegato a squadra che si scappellava in ringraziamenti e sorrisi. Le ricordava quello che avrebbe potuto fare e che non aveva fatto. Più di una volta aveva pensato di buttarlo ma le pareva brutto, visto che quel biglietto di ringraziamento era l’ unico ricordo che le fosse rimasto di Lucia. Buttandolo non si sarebbe certo dimenticata di lei ma… non lo fece, lo ripiegò, l’infilò nella busta bianca e lo rimise nel cassetto, dove, non si sa fra quanto tempo, le sarebbe ricapitato nelle mani. Come a riprendere un pezzo di vita passata che si era interrotta, troncando per sempre un possibile futuro per Lucia. Era un piccolo pezzo di vita, lungo solo ventitré anni. E lei, Carla, c’ era entrata in primavera, per caso, due anni prima. “Ecco, questo è il laboratorio, venga due volte alla settimana per tre ore e veda di pulire quello che può senza spostare niente, di là c’è l’ufficio e il bagno, anche lì non tocchi niente!”. Parlava sul serio quel signore o stava scherzando? Come avrebbe potuto pulire un posto del genere senza spostare niente? Lo scantinato è fresco, l’odore della colla prevarica su quello dei colori a tempera che riempiono per metà un tavolo, le latte sono quasi tutte aperte e dai bordi sbrodolanti si capisce che colore contengono. Il piano del tavolo, montato su due cavalletti è ricoperto di fogli di carta da pacchi, ma il suo colore originale è solo un ricordo, un variopinto guazzabuglio di tinte fa da tovaglia a sagome in espanso di frutta e verdura a cui mancano ancora le sfumature fondamentali per farle sembrare vere; appoggiati su piattini, lì vicino, pennellesse e pennelli di varie misure. Altri tavoli, altri lavori in corso: letterine e numeri trasferibili per comporre un cartello pubblicitario. Cartoncini, lanzette, righe e squadre per creare dime. Sul tecnigrafo marchi da ingrandire, sulla parete di truciolare c’è agganciato un po’ di tutto, calendario di donna nuda compreso. Le matite e le gomme sono onnipresenti, non mancano forbici e martelletti, graffettatrici, puntine e… sigarette e mozziconi dappertutto, accese, spente, spiccicate per terra, ammontonate nei posaceneri o appoggiate sui bordi dei tavoli, che già riportavano i segni delle bruciature precedenti. Carla osserva incredula, con occhi sgranati, e solo al termine di quella carrellata veloce si domanda di che colore potesse essere originariamente il pavimento. Sacconi neri della spazzatura erano agganciati alle manopole dei caloriferi a ridosso delle colonne portanti situate al centro dell’ampio locale. Tre enormi vetrate illuminano: il laboratorio vetrinistico, il caos che lo sovrasta, la vitalità che lo anima e le persone che ne sono gli artefici. Fra tanti ragazzi e ragazzotti vocianti, una fanciulla silenziosa è china sul tavolo da disegno, sta tracciando su di un foglio il viso di una bambina con i codini. Il tratto è leggero ma senza incertezze, la mano procede disinvolta lasciando sul foglio un viso sbarazzino con tanto di lentiggini. Una fanciulla silenziosa, così l’aveva subito qualificata Carla ma per le due ore successive i suoi pensieri furono concentrati su quello strano laboratorio da pulire. “Senza spostare niente!”. Solo nell’intervallo di mezzogiorno, mentre gli altri uscivano per prendersi un panino al bar, Lucia si era presentata e le aveva chiesto di fermarsi con lei a mangiare mentre stendeva un canovaccio sul tavolo di legno e ci appoggiava: la frutta, lo yogurt e un cucchiaino. “Ho un panino in borsetta”. Rispose Carla e si sedette accanto a lei sbirciando meglio il volto della bimba con i codini. “È bello, sei molto brava”. “Se ti piace puoi tenerlo, è solo un bozzetto”. “Sì lo prendo, ti ringrazio”. Avrebbe ripensato un’infinità di volte a quel primo incontro con Lucia. A tutti quei messaggi che già c’erano e che lei non aveva saputo cogliere. Il corpo esile, la carnagione pallida, il viso triste, un tentativo di approccio con una estranea, una richiesta di compagnia. Ricordava anche la sua gentilezza nel farla sentire a suo agio, anche se in fin dei conti lei era solo la ragazza delle pulizie. Forse si era fatta distrarre da questo, forse si sentiva lusingata e fin da quel momento più che pensare a Lucia aveva pensato a se stessa. Per un anno, il martedì e il venerdì, Carla si immergeva a capofitto in quel laboratorio. Per star dietro a quel caos, aveva preso lo stesso ritmo delle persone che ci lavoravano, considerava che fosse l’unico modo possibile. Loro finivano di colorare e lei ritirava subito i pennelli per metterli a bagno, chiudeva le latte di colore, cambiava la carta sui tavoli e quando aveva finito, in un altro tavolo si erano ammucchiati sfridi di carta e cartoncini. Se il materiale sotto pressa era pronto e lo infilavano negli scatoloni, lei con una spatola, alla quale aveva applicato un manico di scopa, staccava dal pavimento le chiazze di colla e di colore. Due tavoli venivano accoppiati per un lavoro grande… lei si presentava con scopa e paletta dove prima non poteva arrivare. Aveva preso in parola quello che le avevano raccomandato il primo giorno “Pulisca quello che può senza spostare niente”. Non eseguiva mai nell’arco della giornata un lavoro uguale a quello precedente come se la frenesia della creatività di quel luogo avesse contagiato anche lei. Con i vetrinisti parlava poco, ma si intendevano egualmente: lei non li disturbava mentre lavoravano e loro non la infastidivano. Solo Lucia la faceva partecipe dei lavori che stava portando avanti: nascevano, crescevano e poi sparivano in fiera o in qualche negozio. Carla sapeva di non essere nessuno là dentro, ma quando “un’opera d’ingegno” come esclamavano scherzando i vetrinisti, varcava la soglia del laboratorio, lei si sentiva orgogliosa di lavorare lì. Le piaceva anche ascoltare Lucia, quando, nei suoi momenti migliori, le raccontava dei capolavori artistici di cui è ricca l’Italia, come se oltrepassata la porta di sesamo lei le illustrasse le meraviglie di quei tesori. I mosaici di Ravenna, gli affreschi nelle chiese, le sculture, i cieli di Giotto, i quadri del Mantegna. Le descrizioni di Lucia si trasformavano in immagini, ma i nomi di quegli autori famosi spesso si confondevano nella mente di Carla. Così quando in laboratorio capitava che rimanessero sole e il silenzio fosse assordante Carla, avendo capito che l’argomento arte riusciva ad animare Lucia, cominciava a domandare di questo o di quell’altro pittore. Dire che loro due, dopo un anno fossero diventate amiche era forse troppo. Anche se Lucia le aveva raccontato molto di sé, era come se a Carla mancassero i capitoli più importanti della sua vita. Sapeva che aveva un fratello minore, con il quale aveva condiviso la perdita della madre quando ancora erano piccoli, sapeva del padre professore universitario sempre impegnato, della nonna materna che li aveva allevati, del liceo artistico che lei aveva abbandonato, dell’ultimo ragazzo che le faceva un filo spietato, conosceva addirittura gli esiti degli ultimi esami del sangue che aveva dovuto controllare per una brutta epatite che si era presa. Nonostante Carla avesse capito che molto di Lucia le fosse ancora sconosciuto provava per lei una simpatia mista a tenerezza. Le piaceva starle vicino, sentire il suo profumo di borotalco, osservare quel viso acqua e sapone, apprezzava il suo modo semplice di vestire, ma quello che proprio la faceva impazzire erano i suoi sorrisi: lievi, appena accennati, i muscoli del viso si modellavano sorretti dalle labbra che si schiudevano in un breve attimo. Sorrisi rari, e proprio per questo Carla aveva capito quanto fossero importanti. Sapevano di avere la stessa età ma solo a maggio, scoprirono di compiere gli anni lo stesso mese, e per Lucia bisognava aspettare fino al venti. “Festeggiamo insieme! Io penserò ad un regalo per te molto artistico! E tu naturalmente dovrai pagarmi da bere”. “Ok, disse Lucia, io pago da bere e sarai tu, questa volta, a pensare all’arte!”. “Artistico… un regalo artistico, ma cose le regalo, un Picasso? Artistico… Mia zia dice che sono un’artista nel preparare i ravioli con la ricotta e gli spinaci! E io le preparo i ravioli con la ricotta e gli spinaci. Vediamo un po’ che faccia farà. Speriamo che sorrida!”. Il 20 maggio. “Senti Lucia, io mi sono spremuta al massimo e l’unica cosa di artistico che ho saputo creare per te, la troverai questa sera a casa mia, alle otto”. “Non potevi portarmela qui?”. “No! Si raffreddano”. “Si raffreddano?”. “Sì, si raffreddano!”. Davanti al suo capolavoro non solo sorrise, a momenti si metteva a piangere, perché diceva che l’ultima volta che aveva mangiato i ravioli fatti in casa, glieli aveva preparati la sua nonna, che adesso è tornata a vivere nelle Marche. Fu una bella serata, il vino dolce che la festeggiata portò contribuì notevolmente a rallegrare gli animi e le guance di Lucia divennero lievemente rosse. La settimana successiva, inaspettatamente, nella casella della posta, Carla trovò un biglietto indirizzato a lei, aprì la busta mentre saliva le scale e rimase piacevolmente sorpresa quando vide disegnato all’interno un gattino piegato a squadra che si scappellava in sorrisi: nel fumetto, sopra la sua testa, c’era scritto un numero infinito di grazie, grazie, grazie. Carla gongolava, la cena per festeggiare il loro compleanno era ben riuscita ma non si aspettava certo un ringraziamento scritto. Il martedì successivo, in laboratorio si abbracciarono e la loro amicizia sembrò essere più profonda. A settembre Lucia lasciò lo studio vetrinistico, voleva riprendere le scuole e Carla fu felice per lei anche se il laboratorio adesso non era più lo stesso. Continuarono a sentirsi per telefono ma… sempre più di rado, fino a perdersi di vista completamente. Una gita organizzata a Mantova per febbraio fece rinascere il desiderio a Carla di risentire la sua vecchia amica. In laboratorio le aveva parlato tanto del Mantegna, del castello e di altre meraviglie che Mantova poteva offrire. Chissà se Lucia sarebbe venuta con lei a Mantova? Provò a telefonare. Rispose il padre: “Lucia non c’è, è nelle Marche dalla nonna, lei è una sua amica?”. Gli aveva spiegato chi fosse e il motivo della telefonata, lui l’aveva riconosciuta: Lucia aveva parlato di lei in casa. Ci fu un attimo di silenzio, poi lui riprese a parlare. L’informò che Lucia non stava troppo bene e quando sarebbe tornata l’avrebbe fatta chiamare, aggiunse anche: “Mi raccomando, le stia vicina”. “Sì, senz’altro”, aveva risposto lei. Non stava troppo bene? Non è mai stata troppo bene! Doveva starle vicina, lei… ma se non si vedevano da sei mesi! Quella ragazza ha sempre avuto qualche grana ma lei non era mai arrivata a capire di cosa si trattasse. Passò febbraio, marzo, aprile ed arrivò maggio, in laboratorio c’era il solito trambusto, merce che rientrava, lavori che uscivano, chi partiva per Genova con un camion di roba, chi rientrava dalla fiera di Milano. Le squadre si incrociano e si scambiano notizie e novità. Raccontato fra un discorso e l’altro, Carla isola quella che doveva essere una normale notizia di cronaca: “Dì, lo sapete di quella tizia che lavorava qui? L’hanno trovata morta ieri nel bagno di casa sua”. “Ma chi, quella drogata?”. “Sì, come si chiamava… Lucia”. Quelle parole le fecero l’effetto di un grosso pugno nello stomaco, il dolore fu così intenso che dovette sedersi. Stupida, stupida che non era stata altro, possibile che non ci fosse arrivata da sola, possibile che non si fosse accorta. Come aveva potuto essere così ingenua. Stupida, stupida, stupida, si ripeteva, e cominciò a piangere a dirotto. “Ma cos’hai? Perché piangi, non lo sapevi che quella si faceva?”. “Cretino, non chiamarla Quella, voi non sapete niente di chi era Lucia, non sapete niente di come fosse sensibile, non sapete un cavolo di niente voialtri”. “E già, sa tutto lei, ma se non sapevi nemmeno che si drogasse”. Il pianto e i singhiozzi la fecero tacere ma i rimorsi le gridavano dentro. Perché non hai più telefonato, ti aveva ricordato suo padre che non stava bene, ti aveva chiesto di starle vicino, quanto tempo hai lasciato passare senza interessarti? Siamo a maggio, e il suo compleanno? Te lo sei dimenticato? L’hanno trovata morta nel bagno, con una siringa nel braccio, magari le bastava che qualcuno si ricordasse del suo compleanno e invece era sola in casa quel giorno. Adesso Carla non poteva fare più niente, niente di niente. Lucia non c’era più, erano spariti i suoi gesti delicati, i suoi abiti semplici e il profumo di borotalco era svanito con il suo dolcissimo sorriso. Non l’avrebbe mai più rivista. Ritrovava invece, ogni tanto, nel cassetto della biancheria la busta bianca contenente il biglietto disegnato a mano da Lucia. Nel fumetto, il gatto piegato a squadra ripeteva un’ infinità di: Grazie, grazie, grazie, grazie…