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Marina Terragni è stata brava, nel suo libro: La scomparsa delle donne, c’ è tutta la sua professionalità e competenza, tutta l’esperienza di una vita vissuta intensamente. Si sente, leggendo il suo libro che ci ha ragionato sopra, facendo partecipe il lettore e le lettrici dei suoi pensieri, delle intuizioni, delle realtà e delle possibilità. E’ una lettura accorata e sincera nella quale mi sono rivista diciottenne, travolta dal 68, ventitreenne, mamma e terribilmente sola. Ho letto pensieri che credevo fossero solo miei e trovarli stampati a distanza di tanti anni mi ha fatto bene. Ho ritrovato i libri della filosofa Luisa Muraro e… mi sono ricordata quanto fosse stato difficile per me  leggere : Il Dio delle donne, avevo dovuto leggerlo due volte e sentivo rileggendolo che era giuso che mi sforzassi per capire, era giusto seguire quei pensieri. Si legge di Virginia Woolf che in: Una stanza tutta per se, parla dell’emancipazione femminile.

E’ come se per tutta la sua vita la Terragni avesse pensato a questo libro, come se avesse osservato passo passo il cambiamento della donna: in casa, sul lavoro, nella società, e in particolare  nei rapporti con l’uomo. Ne ha  preso nota, discusso al Circolo della Rosa, si è confrontata con altre donne, ha ascoltato, ragionato, ha vissuto  esperienze personali che le hanno fatto toccare con mano i possibili cambiamenti. Perché si può cambiare, bisogna cambiare altrimenti la vede brutta la Terragni, magari solo provocatoriamente ma la scomparsa della donna, della sua differenza femminile è al capolinea.

Scrive molto anche degli uomini: delle violenze perpetrate sulle donne, delle sue nuove paure, della voglia di cambiamento che sentono anche loro.

Non vi parlerò di tutti gli argomenti che sono trattati e approfonditi in questo libro, perché è meglio che lo scopriate da sole, o da soli.  Il risultato è  un’ analisi imparziale, e soprattutto Marina Terragni ha lasciata aperta la via alla speranza di una proficua collaborazione fra uomo e donna. Per un mondo migliore.

Mi piace come scrive Gianrico Carofiglio e mi piace soprattutto il suo personaggio: l’avvocato Guido Guerrieri protagonista del legal thriller italiano. Ti piacerebbe prender un aperitivo con lui per dirgli che lo capisci… che anche a te capita di sentirti come lui e che anche a te ti hanno lasciata, ti hanno minacciata, ti hanno picchiata, magari solo da un compagno di classe quando eri piccola ma il ricordo è tanto grande che, leggendo le sue avventure ti ci ritrovi e sei contenta quando lui ce la fa, vince e tira dritto.

I romanzi di Gianrico Carofiglio : “Testimone inconsapevole” del 2002 – “Ad occhi chiusi” del 2003 -“Ragionevoli dubbi” del 2006 – si aggiunge nel 2005 il Premio Bancarella con “Il passato è una terra straniera”. Per ognuno di questi romanzi si prospettano scenari e personaggi diversi fra loro, ma i rapporti umani, le riflessioni, i dubbi e le paure sono sempre presenti. In ” Ragionevoli dubbi ” per esempio il nostro Carofiglio fa dire a Guerrini: ” Avevo voglia di scappare via, adesso. Via da quella inattesa fragilità, da quella disperazione, da quel senso di sconfitta”.

Si sfoga l’avvocato Guerrini prendendo a pugni il sacco. Si libera dalla depressione, si innamora, si ritrova solo, mangia bene e beve meglio ma… altre volte no! e via così fino all’incontro con il suo vecchio amico Tancredi che lo aiuta in un’indagine. Fino a quando si rende conto di quanto la sua segretaria sia preoccupata per lui. Fino a quando decide che non è poi così importante una certa cosa… Un personaggio che si permette di farti leggere i suoi pensieri e resti stupito, perlomeno la prima volta, quando alla fine del discorso si legge: “Ma non dissi così”. Tutti noi vorremmo dire…. ma lo pensiamo soltanto, lui invece, l’Avvocato Guerrini se lo può permettere. Beato lui che può

Le motivazioni sono forti e quello che hai visto non riesci a cancellarlo: ti ricordi la penombra, la serata tiepida, la gente che passa frettolosa e quel pensiero:” Ma cosa sta facendo?”. La necessità di scrivere sorge spontanea, ma trovare le parole giuste per raccontarlo è stato difficile. Come tutte le prove difficili, conclusa la stesura del racconto:” Il biglietto di Lucia”, mi sono sentita serena. Racconto tratto dal libro: “Strettamente Personale” IL BIGLIETTO DI LUCIA Preambolo Un ragazzo accovacciato nella penombra di un androne, forse si stava drogando. Il peggio è stato voler credere che così non fosse. Comincia tutto come una molla che va caricandosi: immagine su immagine, parola con parola, pensiero dopo pensiero. Quello che succede sembra che non ti riguardi, non ti viene nemmeno in mente che possa toccarti personalmente. Poi, quando la molla è a fine corsa e scatta, ti colpisce con tutta la sua forza, ti lacera, ti fa male, ti fa piangere e soprattutto ti fa riflettere. E a quel punto non sei ancora in pace per inventare, per raccontare, per scrivere, per dare corpo. Ci vorrà del tempo per elaborare tutta la tristezza, molto tempo, perché… la Vita lo merita. Era penoso ritrovare quel biglietto disegnato a mano: un gattino piegato a squadra che si scappellava in ringraziamenti e sorrisi. Le ricordava quello che avrebbe potuto fare e che non aveva fatto. Più di una volta aveva pensato di buttarlo ma le pareva brutto, visto che quel biglietto di ringraziamento era l’ unico ricordo che le fosse rimasto di Lucia. Buttandolo non si sarebbe certo dimenticata di lei ma… non lo fece, lo ripiegò, l’infilò nella busta bianca e lo rimise nel cassetto, dove, non si sa fra quanto tempo, le sarebbe ricapitato nelle mani. Come a riprendere un pezzo di vita passata che si era interrotta, troncando per sempre un possibile futuro per Lucia. Era un piccolo pezzo di vita, lungo solo ventitré anni. E lei, Carla, c’ era entrata in primavera, per caso, due anni prima. “Ecco, questo è il laboratorio, venga due volte alla settimana per tre ore e veda di pulire quello che può senza spostare niente, di là c’è l’ufficio e il bagno, anche lì non tocchi niente!”. Parlava sul serio quel signore o stava scherzando? Come avrebbe potuto pulire un posto del genere senza spostare niente? Lo scantinato è fresco, l’odore della colla prevarica su quello dei colori a tempera che riempiono per metà un tavolo, le latte sono quasi tutte aperte e dai bordi sbrodolanti si capisce che colore contengono. Il piano del tavolo, montato su due cavalletti è ricoperto di fogli di carta da pacchi, ma il suo colore originale è solo un ricordo, un variopinto guazzabuglio di tinte fa da tovaglia a sagome in espanso di frutta e verdura a cui mancano ancora le sfumature fondamentali per farle sembrare vere; appoggiati su piattini, lì vicino, pennellesse e pennelli di varie misure. Altri tavoli, altri lavori in corso: letterine e numeri trasferibili per comporre un cartello pubblicitario. Cartoncini, lanzette, righe e squadre per creare dime. Sul tecnigrafo marchi da ingrandire, sulla parete di truciolare c’è agganciato un po’ di tutto, calendario di donna nuda compreso. Le matite e le gomme sono onnipresenti, non mancano forbici e martelletti, graffettatrici, puntine e… sigarette e mozziconi dappertutto, accese, spente, spiccicate per terra, ammontonate nei posaceneri o appoggiate sui bordi dei tavoli, che già riportavano i segni delle bruciature precedenti. Carla osserva incredula, con occhi sgranati, e solo al termine di quella carrellata veloce si domanda di che colore potesse essere originariamente il pavimento. Sacconi neri della spazzatura erano agganciati alle manopole dei caloriferi a ridosso delle colonne portanti situate al centro dell’ampio locale. Tre enormi vetrate illuminano: il laboratorio vetrinistico, il caos che lo sovrasta, la vitalità che lo anima e le persone che ne sono gli artefici. Fra tanti ragazzi e ragazzotti vocianti, una fanciulla silenziosa è china sul tavolo da disegno, sta tracciando su di un foglio il viso di una bambina con i codini. Il tratto è leggero ma senza incertezze, la mano procede disinvolta lasciando sul foglio un viso sbarazzino con tanto di lentiggini. Una fanciulla silenziosa, così l’aveva subito qualificata Carla ma per le due ore successive i suoi pensieri furono concentrati su quello strano laboratorio da pulire. “Senza spostare niente!”. Solo nell’intervallo di mezzogiorno, mentre gli altri uscivano per prendersi un panino al bar, Lucia si era presentata e le aveva chiesto di fermarsi con lei a mangiare mentre stendeva un canovaccio sul tavolo di legno e ci appoggiava: la frutta, lo yogurt e un cucchiaino. “Ho un panino in borsetta”. Rispose Carla e si sedette accanto a lei sbirciando meglio il volto della bimba con i codini. “È bello, sei molto brava”. “Se ti piace puoi tenerlo, è solo un bozzetto”. “Sì lo prendo, ti ringrazio”. Avrebbe ripensato un’infinità di volte a quel primo incontro con Lucia. A tutti quei messaggi che già c’erano e che lei non aveva saputo cogliere. Il corpo esile, la carnagione pallida, il viso triste, un tentativo di approccio con una estranea, una richiesta di compagnia. Ricordava anche la sua gentilezza nel farla sentire a suo agio, anche se in fin dei conti lei era solo la ragazza delle pulizie. Forse si era fatta distrarre da questo, forse si sentiva lusingata e fin da quel momento più che pensare a Lucia aveva pensato a se stessa. Per un anno, il martedì e il venerdì, Carla si immergeva a capofitto in quel laboratorio. Per star dietro a quel caos, aveva preso lo stesso ritmo delle persone che ci lavoravano, considerava che fosse l’unico modo possibile. Loro finivano di colorare e lei ritirava subito i pennelli per metterli a bagno, chiudeva le latte di colore, cambiava la carta sui tavoli e quando aveva finito, in un altro tavolo si erano ammucchiati sfridi di carta e cartoncini. Se il materiale sotto pressa era pronto e lo infilavano negli scatoloni, lei con una spatola, alla quale aveva applicato un manico di scopa, staccava dal pavimento le chiazze di colla e di colore. Due tavoli venivano accoppiati per un lavoro grande… lei si presentava con scopa e paletta dove prima non poteva arrivare. Aveva preso in parola quello che le avevano raccomandato il primo giorno “Pulisca quello che può senza spostare niente”. Non eseguiva mai nell’arco della giornata un lavoro uguale a quello precedente come se la frenesia della creatività di quel luogo avesse contagiato anche lei. Con i vetrinisti parlava poco, ma si intendevano egualmente: lei non li disturbava mentre lavoravano e loro non la infastidivano. Solo Lucia la faceva partecipe dei lavori che stava portando avanti: nascevano, crescevano e poi sparivano in fiera o in qualche negozio. Carla sapeva di non essere nessuno là dentro, ma quando “un’opera d’ingegno” come esclamavano scherzando i vetrinisti, varcava la soglia del laboratorio, lei si sentiva orgogliosa di lavorare lì. Le piaceva anche ascoltare Lucia, quando, nei suoi momenti migliori, le raccontava dei capolavori artistici di cui è ricca l’Italia, come se oltrepassata la porta di sesamo lei le illustrasse le meraviglie di quei tesori. I mosaici di Ravenna, gli affreschi nelle chiese, le sculture, i cieli di Giotto, i quadri del Mantegna. Le descrizioni di Lucia si trasformavano in immagini, ma i nomi di quegli autori famosi spesso si confondevano nella mente di Carla. Così quando in laboratorio capitava che rimanessero sole e il silenzio fosse assordante Carla, avendo capito che l’argomento arte riusciva ad animare Lucia, cominciava a domandare di questo o di quell’altro pittore. Dire che loro due, dopo un anno fossero diventate amiche era forse troppo. Anche se Lucia le aveva raccontato molto di sé, era come se a Carla mancassero i capitoli più importanti della sua vita. Sapeva che aveva un fratello minore, con il quale aveva condiviso la perdita della madre quando ancora erano piccoli, sapeva del padre professore universitario sempre impegnato, della nonna materna che li aveva allevati, del liceo artistico che lei aveva abbandonato, dell’ultimo ragazzo che le faceva un filo spietato, conosceva addirittura gli esiti degli ultimi esami del sangue che aveva dovuto controllare per una brutta epatite che si era presa. Nonostante Carla avesse capito che molto di Lucia le fosse ancora sconosciuto provava per lei una simpatia mista a tenerezza. Le piaceva starle vicino, sentire il suo profumo di borotalco, osservare quel viso acqua e sapone, apprezzava il suo modo semplice di vestire, ma quello che proprio la faceva impazzire erano i suoi sorrisi: lievi, appena accennati, i muscoli del viso si modellavano sorretti dalle labbra che si schiudevano in un breve attimo. Sorrisi rari, e proprio per questo Carla aveva capito quanto fossero importanti. Sapevano di avere la stessa età ma solo a maggio, scoprirono di compiere gli anni lo stesso mese, e per Lucia bisognava aspettare fino al venti. “Festeggiamo insieme! Io penserò ad un regalo per te molto artistico! E tu naturalmente dovrai pagarmi da bere”. “Ok, disse Lucia, io pago da bere e sarai tu, questa volta, a pensare all’arte!”. “Artistico… un regalo artistico, ma cose le regalo, un Picasso? Artistico… Mia zia dice che sono un’artista nel preparare i ravioli con la ricotta e gli spinaci! E io le preparo i ravioli con la ricotta e gli spinaci. Vediamo un po’ che faccia farà. Speriamo che sorrida!”. Il 20 maggio. “Senti Lucia, io mi sono spremuta al massimo e l’unica cosa di artistico che ho saputo creare per te, la troverai questa sera a casa mia, alle otto”. “Non potevi portarmela qui?”. “No! Si raffreddano”. “Si raffreddano?”. “Sì, si raffreddano!”. Davanti al suo capolavoro non solo sorrise, a momenti si metteva a piangere, perché diceva che l’ultima volta che aveva mangiato i ravioli fatti in casa, glieli aveva preparati la sua nonna, che adesso è tornata a vivere nelle Marche. Fu una bella serata, il vino dolce che la festeggiata portò contribuì notevolmente a rallegrare gli animi e le guance di Lucia divennero lievemente rosse. La settimana successiva, inaspettatamente, nella casella della posta, Carla trovò un biglietto indirizzato a lei, aprì la busta mentre saliva le scale e rimase piacevolmente sorpresa quando vide disegnato all’interno un gattino piegato a squadra che si scappellava in sorrisi: nel fumetto, sopra la sua testa, c’era scritto un numero infinito di grazie, grazie, grazie. Carla gongolava, la cena per festeggiare il loro compleanno era ben riuscita ma non si aspettava certo un ringraziamento scritto. Il martedì successivo, in laboratorio si abbracciarono e la loro amicizia sembrò essere più profonda. A settembre Lucia lasciò lo studio vetrinistico, voleva riprendere le scuole e Carla fu felice per lei anche se il laboratorio adesso non era più lo stesso. Continuarono a sentirsi per telefono ma… sempre più di rado, fino a perdersi di vista completamente. Una gita organizzata a Mantova per febbraio fece rinascere il desiderio a Carla di risentire la sua vecchia amica. In laboratorio le aveva parlato tanto del Mantegna, del castello e di altre meraviglie che Mantova poteva offrire. Chissà se Lucia sarebbe venuta con lei a Mantova? Provò a telefonare. Rispose il padre: “Lucia non c’è, è nelle Marche dalla nonna, lei è una sua amica?”. Gli aveva spiegato chi fosse e il motivo della telefonata, lui l’aveva riconosciuta: Lucia aveva parlato di lei in casa. Ci fu un attimo di silenzio, poi lui riprese a parlare. L’informò che Lucia non stava troppo bene e quando sarebbe tornata l’avrebbe fatta chiamare, aggiunse anche: “Mi raccomando, le stia vicina”. “Sì, senz’altro”, aveva risposto lei. Non stava troppo bene? Non è mai stata troppo bene! Doveva starle vicina, lei… ma se non si vedevano da sei mesi! Quella ragazza ha sempre avuto qualche grana ma lei non era mai arrivata a capire di cosa si trattasse. Passò febbraio, marzo, aprile ed arrivò maggio, in laboratorio c’era il solito trambusto, merce che rientrava, lavori che uscivano, chi partiva per Genova con un camion di roba, chi rientrava dalla fiera di Milano. Le squadre si incrociano e si scambiano notizie e novità. Raccontato fra un discorso e l’altro, Carla isola quella che doveva essere una normale notizia di cronaca: “Dì, lo sapete di quella tizia che lavorava qui? L’hanno trovata morta ieri nel bagno di casa sua”. “Ma chi, quella drogata?”. “Sì, come si chiamava… Lucia”. Quelle parole le fecero l’effetto di un grosso pugno nello stomaco, il dolore fu così intenso che dovette sedersi. Stupida, stupida che non era stata altro, possibile che non ci fosse arrivata da sola, possibile che non si fosse accorta. Come aveva potuto essere così ingenua. Stupida, stupida, stupida, si ripeteva, e cominciò a piangere a dirotto. “Ma cos’hai? Perché piangi, non lo sapevi che quella si faceva?”. “Cretino, non chiamarla Quella, voi non sapete niente di chi era Lucia, non sapete niente di come fosse sensibile, non sapete un cavolo di niente voialtri”. “E già, sa tutto lei, ma se non sapevi nemmeno che si drogasse”. Il pianto e i singhiozzi la fecero tacere ma i rimorsi le gridavano dentro. Perché non hai più telefonato, ti aveva ricordato suo padre che non stava bene, ti aveva chiesto di starle vicino, quanto tempo hai lasciato passare senza interessarti? Siamo a maggio, e il suo compleanno? Te lo sei dimenticato? L’hanno trovata morta nel bagno, con una siringa nel braccio, magari le bastava che qualcuno si ricordasse del suo compleanno e invece era sola in casa quel giorno. Adesso Carla non poteva fare più niente, niente di niente. Lucia non c’era più, erano spariti i suoi gesti delicati, i suoi abiti semplici e il profumo di borotalco era svanito con il suo dolcissimo sorriso. Non l’avrebbe mai più rivista. Ritrovava invece, ogni tanto, nel cassetto della biancheria la busta bianca contenente il biglietto disegnato a mano da Lucia. Nel fumetto, il gatto piegato a squadra ripeteva un’ infinità di: Grazie, grazie, grazie, grazie…

Invece, Alexander McCall Smith, è un maschio nato nello Zimbabwe, è professore di medicina legale all’Università di Edimburgo; scrive opere specialistiche ed è vicepresidente della commissione inglese per la genetica. Queste ed altre informazioni si leggono sulla quarta di copertina dei suoi romanzi, si perché Alexander McCall Smith, non pubblica solo opere impegnative ma anche piacevolissimi romanzi.

Ho letto per primo:”Il tè è sempre una soluzione” poi “Un peana per le zebre“, quando Raffaella me li ha prestati mi ha detto:”Vedrai sono carini”.

In seguito ho acquistato in libreria , sempre dello stesso autore: “Morale e belle ragazze” e “Le lacrime della giraffa” che ho finito di leggere ieri sera. Insomma ne ho fatta una scorpacciata! e non averli letti nella giusta sequenza non ha affatto inciso sul piacere della lettura.

Nei romanzi di Alexander McCall Smith si respira l’Africa, si ascolta l’Africa, si osserva con lui il sorgere del sole, quando scrive:”Il sole, una grande palla rossa, per un attimo restò appesa alla linea dell’orizzonte poi si liberò e si gonfiò veleggiando su tutta l’Africa…Ci parla della politica del Botswana, e chi mai ce ne aveva parlato prima? Racconta della sua capitale: Gaborone, di altri paesi dai nomi per noi sconosciuti: Molepolole, Lobatse, Mochudi con tutti i personaggi che li animano e in più: le loro amiche, sorelle, zii, cugini di primo di secondo e di terzo grado, anche loro con nomi dal suono stranissimo per noi, ma… la loro natura non è differente dalla nostra, lo sa bene Alexander McCall Smith quando fa esprimere questo concetto alla signora Precious Romotswe, fondatrice della Ladies’ DetectivAgency N: 1, protagonista dei romanzi, altri personaggi le girano attorno fedeli: la sua segretaria che diventerà… Il fidanzato o… marito? con i due lavativi apprendisti meccanici, la direttrice dell’orfanotrofio con i suoi bambini e con gli innumerevoli problemi da risolvere che le tempreranno il carattere. Tutti bevono in continuazione il tè rosso in grandi quantità, è servito e sorseggiato nelle circostanze più disparate: per rilassarsi, chiacchierare e pensare, con grande sollievo di tutti. Non sono da meno gli altri personaggi che nei vari romanzi si affacciano sulla porta dell’agenzia investigativa per chiedere aiuto, a loro il tè viene offerto per metterli a loro agio, come richiede la buona educazione del Botswana. Educazione, morale, tradizioni e consuetudini sono sempre presenti, come il tè!

Le indagini richiedono spostamenti che la rispettabilissima signora Ramotswe effettua col mitico furgoncino bianco tenuto in ordine dal suo compagno meccanico che è una persona speciale, come speciali sono gli animali e la vegetazione che la circondano, anche in città. Si legge: “Sola nella sua casa di Zebra Drive, la signora Ramotswe si svegliò, come spesso le capitava, nel cuore della notte, quando la città tace, perfettamente silenziosa; il momento di massimo rischio per i topi e altre minuscole creature, quello in cui i cobra e i mamba vanno a caccia senza far rumore.” Oppure “C’erano aiuole rigogliose di gigli tropicali, grovigli di bouganville e, folti praticelli di erba kikuyu…” L’ombra è garantita da grandi baobab o macchie di acacie spinose. Ci sono formicai che… e cani cacciatori di serpenti. E in tutte le pagine… l’aria africana è penetrata con la sua finissima sabbia proveniente dal deserto del kalahari.

Lo scorrere delle indagini è parallelo allo scorrere della frescura del mattino, all’incombere della tremenda calura. E tremende sono anche le realtà della povertà, delle malattie e delle sofferenze che in queste pagine ci arrivano intrecciate a personaggi che noi stiamo immaginando grazie alla scrittura e paradossalmente ci sembrano più vere di quelle riportate delle cronache, con statistiche e numeri concreti.

Per abitudine, per quanto riguarda i libri che non conosco, non leggo mai prima del romanzo chi è l’autore e tanto meno le recensioni o critiche per non esserne influenzata.
Per risolvere i casi che le si presentano la signora Precious Ramotswe è stata dotata dal suo autore di : sensibilità, attenzione, capacità di deduzione e un pizzico di ingenuità. E’ conoscitrice del mondo femminile e maschile, tanto da farmi credere che l’autore del romanzo che stavo leggendo fosse femmina. Naturalmente ci sono molte altre raffinatezze in questi romanzi di Alexander McCall Smith, che si direbbero all’acqua di rosa, invece secondo me… Ma lascio a voi il piacere di scoprirlo.

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Per quelli che: “Un altro libro?”.

Per quelli che: “Che brava!”.

Per quelli che: “Ma tu scrivi così come ti viene?”.

Per quelli che: “Finalmente qualcosa di bello da leggere”.

Per quelli che: ” Ma dovevi scrivere di più sul lago Maggiore!”.

Per quelli che: ” Ma ti ha aiutata tuo marito?”.

Per quelli che: “Strettamente personale? Ma… sono favole per bambini?“.

Per quelli che: “Lo compro subito”.

Per quelli che: ” Non hanno il computer”.

Per quelli che: ” Ci han provato ma… non ci son riusciti”.

Per quelli che: ” Non hanno la carta di credito”.

Per quelli che: ” Hanno paura di usare la carta di credito”.

Per quelli che: ” Si sono iscritti e poi… faranno l’ordine”.

Per quelli che: ” Ne voglio comperare otto”.

Per quelli che: “Aspettano una presentazione”.

Per quelli che: “Aspettano e basta”.

Per quelli che: “Dicono di non saperlo”

Per quelli che: “Lo sanno e mi parlano d’altro”.

Per quelli che: “Silenzio e basta”.

Per quelli che: “Stanno già leggiucchiando!”. (Cosa?)

Per quelli che: “Complimenti lo leggeremo”.

Per quelli che: “Poi ti commento il libro”.

Per quelli che: “Vorrei… ma non posso”.

Per tutti costoro, il libro “Strettamente personale” e “La quinta barca è Magica” , saranno disponibili nel sistema bibliotecario del nord-ovest e nella Biblioteca Sormani di Milano.

Buona lettura a tutti.

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E’ una lunga lettera che mi ha spedito mio cugino.

Cara Lella,

ho letto il tuo libro.

Delle persone abitualmente si dice talora (a torto o a ragione, poco importa) “poche, ma buone!”. La stessa cosa devo dire, ma solo a ragione, delle tue pagine:poche, ma buone!”, anzi, ottime.

Salve le debite eccezioni, guardo sempre con qualche prevenzione i libri molto voluminosi. Talvolta accade che gli autori dedichino eccessivo spazio a situazioni descrittive di stati d’animo e finiscono con il creare spesso una gabbia intorno al lettore, il quale viene così preso per mano e non può che prendere atto di ciò che vuole dire lo scrittore, lasciando scarsi margini all’attività introspettiva di chi legge. Tale tecnica va assolutamente bene per la descrizione di paesaggi e oggetti o per definire ad es. l’espressività del viso dei personaggi, ma, secondo il mio modo di veder le cose, diventa una fastidiosa pastoia quando la prolissità investe il pensiero e le sensazioni.

Questa premessa mi è parsa doverosa perché un libro che ha per titolo “Strettamente Personale” non può che trattare argomenti….. strettamente personali. E’ un argomento non solo delicato, ma anche alquanto complicato, perché se le tematiche dell’autore fossero eccessivamente definite e circoscritte finirebbero con l’assolvere ad una funzione pressoché notarile della sua volontà, con il risultato che il lettore potrebbe rimanere imprigionato in uno schema interpretativo non suo, giacché lo scritto risulterebbe privato della irrinunciabile qualità di suscitare o trasmettere le particolari emozioni che l’autore aveva prima provato e poi trascritto. L’opera, come tu stessa hai ottimamente intuito, deve invece avere anche la capacità di coinvolgere ed investire la sensibilità creativa del lettore; accompagnare il lettore in un viaggio parallelo fatto di emozioni; gettare un ponte di comunicabilità. E qui casca l’asino, amava dire un mio omonimo (nel senso di Mascìa, con l’accento sulla “i”) amico sardo. Qui viene fuori la qualità dello scrittore: gli bastano a volte poche e semplici frasi per accendere o quanto meno stimolare la presenza partecipativa del lettore, ma per giungere a questo risultato occorre una grande capacità di cercare, selezionare e calibrare quelle parole “chiavi”, proprio quelle parole magiche (e non altre) che sono necessarie per stabilire una sorta di simbiosi con la sensibilità del lettore. Questi deve essere munito di idonea chiave di lettura che gli consenta non solo di accedere al pensiero dell’autore, ma anche di scrutare in un altro intimo orizzonte di emozioni.

Sei stata brava nella ricerca dell’indispensabile equilibrio narrativo necessario, facendo leva su quelle frasi chiave sapientemente distribuite qua e là.

Ha ragione il prefatore Filippi: il preambolo (complimenti per la magnifica idea!) è una preziosa cornice e proprio in essi ho trovato spesso il guizzo, il bandolo di una nuova matassa da dipanare nei misteri di segreti e spesso inesplorati pensieri.

Non mi pare il caso di dilungarmi troppo, ma tengo a svelarti che sono stato vivamente colpito da alcuni tuoi pensieri.

Ad es. a pag. 17 scrivi: “Il peggio è stato voler credere che così non fosse. Comincia tutto come una molla………….pensiero dopo pensiero”. Credo che già questo breve paragrafo racchiuda il tema non di una passeggiata letteraria, ma una faticosa ed impegnativa scalata dell’inconscio.

Vivere al rallentatore” dici a pag. 37. Lo trovo un perentorio invito all’intera umanità a vivere al rallentatore, un invito a guardare le cose rivolto a chi invece si limita solo a vederle. Peccato che sia, come anche tu scrivi, un’utopia.

Pag. 58. “La sfortuna di una sofferenza può risultare vincente per chi sa cogliere una scintilla nel buio”. Penso alla grandiosa e vincente fragilità di uomini (Gesù con la Sua cosciente immolazione, Gandhi con la sua non violenza e con la marcia del sale) che con la loro sofferenza e il loro esempio hanno cambiato il corso della vita di miliardi di persone.

Pag. 102. “Quando si prega è bene sapere quello che si dice.” Pare un’affermazione lapalissiana, ma è una domanda tragicamente sempre attuale in tutti i campi: quanti sono capaci di farlo? Se effettivamente sapessimo con esattezza cosa facciamo, prevedendone le conseguenze, forse vivremmo in un mondo migliore. E, perbacco, sei riuscita anche a mettere il dito nella piaga, condannando l’inadeguatezza della scuola, che oggi ci consegna giovani ignoranti, vittime del pregiudizio di insegnanti e genitori.

Io mi fermo qui, ma tu non ti fermare, vai avanti perché sono sicuro che se scavi bene in te stessa certamente troverai cose importanti da scrivere.

Un abbraccio Mario e Enza.


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Domenica 3 febbraio ho sfogliato con foga le pagine del IL GIORNO, cercavo un articolo che avrebbe parlato di me, l’ho trovato nella pagina Metropoli: Trovalavoro, curata dalla giornalista Monica Guerci. Avevo risposto alle sue domande ed ora leggevo sul giornale le mie risposte. Un articolo preciso e ben scritto, che ho riletto due volte di seguito, come se non conoscessi già quella storia!!

SI dice nel film: L’avvocato del diavolo “La vanità è il peccato preferito dal diavolo”.

Infatti, scherzando con gli amici ho fatto notare che la mia foto fosse più grande di quella di Sarkòzy in prima pagina! poi, passata l’euforia, mi sono detta che un bell’articolo così oltre ad ingrossare la mia vanità sarebbe servito a far conoscere i miei libri: “Strettamente personale” e “La quinta barca è Magica”. Questo sì, è il massimo del piacere!

Perciò grazie infinite alla giornalista Monica Guerci e a tutti coloro che incuriositi avranno voglia di navigare sul sito www.lulu.com

Articolo su Il Giorno

Verrebbe da dire, meno male che ci sono le scadenze: l’inizio della settimana, il primo del mese, la fine delle ferie, il primo dell’anno. C’è sempre qualcosa che vorremmo cominciare, e le scadenze, a quanto pare, ci sono alleate nel rimandare i nostri propositi!

Vorremmo riuscire ad andare in piscina, ci piacerebbe partecipare a quei corsi in biblioteca, vorremmo anche dimagrire o ingrassare. Eppure non ci riusciamo.
C’è un trucco che ci ha insegnato la psicologa del centro dove sono stata volontaria per qualche anno (non è un trucco per riuscirci!) ma per lo meno ci mette di fronte a quanto veramente vogliamo. Si prende carta e penna e si scrive cosa facciamo per riuscirci, ripeto: cosa facciamo, azione dopo azione, una riga sotto l’altra. Se le azioni sono pochine vuol dire che non facciamo molto per riuscirci. Per me, all’epoca è stata una rivelazione. Sono stata costretta a pensare a queste azioni mancanti e anche a quelle congestionate. In seguito leggendo Osho Rajneesh ancora: azioni e attività. Secondo lui: l’azione è fare quello che la situazione richiede, è una risposta. L’attività invece è frutto dell’irrequietezza interna e la situazione è solo un pretesto. Sempre Osho (se non ho capito male) parla della difficoltà di vivere, ma nel contempo ci spiega che questo è il succo del vivere. Insomma fare è difficile! cominciare, per me, ancora di più.

La tentazione di rifugiarsi in quello che già sappiamo è forte, la sicurezza che ci da muoverci in un territorio che conosciamo è assoluta. Il frequentare le solite persone ci mette al sicuro da critiche. La tentazione di infilare la mano nella borsetta ed avere la certezza che lì dentro troverai tutto quello che ti serve perché è già ben organizzato, è rassicurante. Per assurdo anche mangiare sempre le stesse cose ci preserva da cattive sorprese, però… però rinunci al succo della vita.
Peccato averci messo tanto a capirlo!

Un giorno, leggendo le ultime tre parole del libro: Il bambino di Noè di Eric-Emmanuel Schmitt, mi trovo lì spiattellati quei concetti che io avevo impiegato una vita per capire, ma… erano così chiari perché li avevo già elaborati oppure chiunque leggendo quel libro sarebbe arrivato alle mie stesse conclusioni?

La tentazione è stata forte, ho regalato il libro a mia nipote, nella speranza che lei, giovane e forte! possa arrivare prima di me ad un traguardo che la metterà in condizione di cominciare, cominciare… sempre.

 

 

 

 

Sono golosa, lo so, e quando davanti a me si presenta un nuovo autore mi piace assaggiarlo subito e se mi piace… non mollo l’osso fino a che non l’ho spolpato tutto, cercando di leggere tutti i suoi libri: é stato così per Pennac, per Ignazio Silone, per Piero Chiara, Paola Mastrocola, Maria Bellonci e molti altri.
Non è stato così per Yosè Saramago. Il romanzo L’uomo duplicato è stato la mia prima volta. Storia intrigante, dall’apparenza assurda che indaga su due persone perfettamente identiche.

Ho dovuto leggere Cecità, sempre di Saramago per sentire la necessità di rileggere L’uomo duplicato, e la seconda volta che leggi un libro non ti sembra più nemmeno lo stesso perché nel frattempo hai vissuto, hai preso atto di nuove situazioni.

E quei due uomini ti fanno pensare a quante volte ci capita di voler essere un’altra persona, a quante volte sentiamo il desiderio di comportarci diversamente, a quanti siamo e chi siamo veramente?

Cecità è un romanzo dalla scrittura discorsiva e libera, con un ritmo incalzante che ti fa venir voglia di vedere dove andrà a parare. E’ una storia assurda e terribilmente angosciante. La cecità collettiva è una metafora del non volere vedere, è l’assenza della ragione. Quelle atrocità raccontate che sono un’invenzione ma…purtroppo accadono davvero, per cui sei costretta a prenderne coscienza per confrontarti con la falsità e il degrado degli esseri umani.

Adesso ho capito perché non mi sono buttata a pesce sui libri di Saramago, loro ti impegnano anche dopo che li hai letti, ti inseguono nel quotidiano. Ma se un Nobel portoghese ti insegue, forse vale la pena di farsi acchiappare.

Guardare e non vedere, ascoltare e non sentire è una tematica della quale anch’io ho sentito la necessità di parlarne nel racconto: Le due lettere, inserito nel libro Strettamente personale.

Sono certa che non sono stata la prima e non sarò nemmeno l’ultima!

Veramente inaspettate: due recensioni in due giorni.

Elena, sul suo blog mi ha stupito oltre che per la sua velocità di lettura anche per la precisione con cui ha centrato il succo dei due libri, parlando di sogno per La quinta barca è Magica e di racconti che fanno pensare per Srettamente personale.

Brava e grazie