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Premessa Storie di un altro mondo. Lo scorrere del tempo ha interrotto le tradizioni. Adalgisa non era una donna bella e nemmeno affascinante in compenso era bassina ma… di sicuro aveva delle virtù nascoste perchè un bel giovanottone con bei mustacchi si innamorò di lei vedendola recitare sul palcoscenico. Si sposarono. Nacquero: Elettra,Tina, Cesarina, Yolanda, Oreste ed Eligio. Tina, che molto aveva preso dal padre (meno i mustacchi) fece perdere la testa, con la sua grazia e la sua bellezza a Nino, un tappezziere di Venezia che fra il pubblico era quello che più forte l’acclamava. Si sposarono. Nacquero: Luigi, Carla, Marinella. Marinella, a cui non piaceva recitare, tutte le sere in prima fila, per parecchi mesi, riceveva applausi, complimenti e baci volanti da Carlo. Si sposarono. Nacquero: Luciano e Antonia. Antonia, ignara di interrompere una tradizione che continuava da tre generazioni ha conosciuto il suo futuro marito a casa di amici e non ha mai recitato se non all’asilo! Per rimediare a queste mancanze e per rispetto alle sue ave era anda a teatro con Enrico moltissime volte, grazie anche agli ingressi gratuiti elargiti dal vario parentado e soprattutto grazie alla nonna Tina che le aveva trasmesso l’amore per il teatro. Il piacere dell’ascolto e la magia del farsi coinvolgere, piano piano e senza che se ne accorgesse, fino a trovarsi immersa in altri mondi. —————————————————————————————————————————- Oramai me lo aspettavo, succedeva quasi sempre, le differenti reazioni dipendevano dall’umore, dal carattere o dalla personalità dell’impiegato di turno che mi rivolgeva la classica domanda: ” Data e luogo di nascita”. Io rispondevo scandendo bene numeri e lettere: “5 del 5 del 50, a Portula”. Alcuni si soffermavano sulla data reputandola: facile da ricordare, uguale a quella di qualche parente o amico oppure declamando “Ei fu. Siccome immobile,” i più spicci, alzando lo sguardo verso di me si limitavano ad esclamare: ”Napoleone”. Altri, fortunatamente, trascrivevano la data senza commenti ma… nessuno, proprio nessuno capiva bene il nome della città che puntualmente storpiavano ripetendomela interrogativamente: ” Protula? Potula”?No, Portula”. E quasi a giustificare e rendere il più veritiero possibile il nome del comune in cui ero nata mi affrettavo ad aggiungere: ”In provincia di Vercelli, anzi, adesso in provincia di Biella. Meno male che nessuno voleva sapere “dove” proprio fossi nata. La cosa mi avrebbe imbarazzata non poco, anche se negli anni 50 non era così scontato nascere in ospedale, anzi era abbastanza comune partorire in casa, magari facendosi assistere da un’ostetrica o anche senza. Naturalmente nel giro dei familiari e per il resto della compagnia la cosa era risaputa. Mia cugina Elettra, per esempio, che era maggiore di me di 5 anni, quando fu più grande mi raccontò più volte che quel giorno era molto arrabbiata perché quando era arrivata lì per conoscere la nuova cuginetta la cicogna era appena andata via e lei non aveva fatto in tempo a vederla. Si era consolata osservandomi e decretando davanti a tutti:”Quasi quasi è più bella di me”. Non che fossero in tanti lì dentro, c’erano: mia mamma Marinella (nome d’arte Mannussi) che aveva in braccio me, Antonia appena nata, Carla,(nome d’arte Kyky) sua sorella e mamma di Elettra, l’ostetrica (confermato dall’atto di nascita che avrei letto 65 anni dopo) e naturalmente Tina, mamma di Marinella. Era stata lei a darsi un gran da fare quando suo genero Carlo le aveva scritto al fermo posta di Portula spiegandole che Marinella, in stato avanzato di gravidanza, sarebbe arrivata in Piemonte da lei per partorire. Inoltre l’aveva informata che quella decisione era per il bene del futuro nascituro affinché nascesse nell’Italia settentrionale e non in un’ isola del sud, dove lui lavorava e risiedeva con il resto della famiglia. Otto anni prima Carlo si era innamorato di Marinella vedendola recitare sul palcoscenico. Aveva poi seguito lei e tutta la compagnia teatrale “di piazza in piazza” facendole una corte serrata. Marinella vedeva in Carlo la possibilità di realizzare il suo sogno: allontanarsi definitivamente dal mondo del teatro che detestava e formare una famiglia con un uomo che non appartenesse al mondo dello spettacolo. Carlo invece ne era affascinato ma lei che dalla madre aveva ereditato la fermezza si rifiutò di accettarlo come marito finché non avesse trovato un posto di lavoro. Andò diversamente, l’amore prevalse sulla fermezza e si sposarono di li a poco, ancora in tempo di guerra e fecero il viaggio di nozze sul lago di Como. Il lavoro Carlo lo trovò in Sardegna un anno dopo e Marinella poté così coronare il suo sogno: una casa e il primogenito Luciano che nacque a Bergamo, sotto un bombardamento e sotto la protezione della nonna Tina che in quel periodo era lì con il resto della compagnia teatrale itinerante. Dopo sette anni Marinella prese per mano Luciano e rifece un lungo viaggio: prima in pullman, poi in traghetto e in treno. Arrivò dalla Sardegna a Portula in Piemonte, da sua madre, per partorire di nuovo. Per nonna Tina un problema in più, ma lei, nelle difficoltà aveva sempre trovato lo sprone per non mollare. Da lei dipendevano le sorti delle diverse famiglie che recitavano nella compagnia che lei dirigeva, era responsabile dei testi teatrali che venivano scelti ed era sempre lei che prendeva i contatti con le persone importanti dei nuovi paesi dove pensavano di recitare. Il loro repertorio spaziava dalla “Signora delle camelie“ alle “Due orfanelle”, Dalla “Fiaccola sotto il moggio”, alla storia di qualche santo. La scelta era dettata dalla piazza e dagli umori dei cittadini. Non sempre le città disponevano di un teatro e allora c’era da montare il loro, di teatro. Oppure, Tina contattava il Parroco per ottenere la sala dell’oratorio. C’ era da capire come la pensasse il sindaco o informarsi immediatamente su chi fosse il nuovo podestà. Da sempre Tina era supportata dal marito Antonio (nome d’arte Nino) e da tutta la compagnia. Gli attori e le attrici erano anche: elettricisti, addetti alla biglietteria, falegnami, pittori, trovarobe, rumoristi, sarte, suggeritrici, guardarobiere. La sera, dietro le quinte, chi non era di scena controllava il sonno dei bambini, i più piccoli dormivano nelle ceste e i più grandi su materassi improvvisati. I tempi di riposo andavano rispettati perché al mattino i bambini della compagnia teatrale frequentavano normalmente le scuole pubbliche. Ogni piazza un cambio di scuola, di maestre e di compagni di classe. Non erano mai indietro nel programma “i figli dei comici” come li chiamavano gli indigeni, conoscevano la matematica, le scienze, si cimentavano nella bella calligrafia, la geografia la conoscevano anche per averla vissuta sul campo, città dopo città, fiumi, pianure e appennini, avendo percorso in lungo e in largo tutta la penisola. Se si fermavano in una piazza per parecchio tempo riuscivano anche ad imparare il dialetto locale. Non di meno conoscevano la grammatica italiana, la sintassi e l’esatta dizione delle parole, perché Tina pretendeva da tutti indistintamente (bambini compresi) che pronunciassero la lingua Italiana correttamente, ed era particolarmente inflessibile sulle e chiuse e sulle e aperte. Vita difficile per tutti, visto che anche i bambini, alcune volte, calcavano la scena. La compagnia teatrale era una famiglia allargata e si divideva tutto: oneri e onori, fame e fatica, momenti di gloria e di disperazione. Tutti contribuivano a far conoscere le opere di Pirandello, Shakespeare, D’Annunzio e molti altri autori. La compagnia teatrale assorbiva usi e costumi dei paesi in cui si fermavano, modi diversi di cucinare e modi diversi di esprimersi. Era sempre in movimento la compagnia teatrale; viaggiavano in treno, e con loro sui vagoni portavano lo stretto necessario; invece nei camion che li seguivano c’era tutto il loro teatro viaggiante, il “Carro di Tespi” come veniva chiamato, c’erano le cantinelle, le scene arrotolate e tutto il resto dell’attrezzatura, ma soprattutto le pareti e il tetto del teatro. Questo veniva ogni volta montato utilizzando le “capriate” su un largo spiazzo o spesso sul prato che costituiva l’unico pavimento su cui venivano disposte le sedie. Sempre nei camion venivano caricati innumerevoli bauli che contenevano gli abiti di scena. Gli stessi abiti che ogni sera gli attori selezionavano per lo spettacolo, li riponevano con cura nelle ceste assieme all’occorrente per il trucco, i gioielli, le sciarpe e cappelli, armi o ombrellini, lunghi bocchini per le sigarette e bastoni, scarpe e fibbie. Tutte le sere gli attori portavano in teatro la loro cesta ma non tutti avevano un camerino, per cui a secondo di “ chi è di scena” veniva occupato. Il trovarobe era responsabile del materiale necessario per le scene oltre che alla sua manutenzione e al suo reperimento, naturalmente poteva occuparsi anche degli effetti sonori o delle luci. Tina era la prima donna di questo teatro, in tutti i sensi: in ogni piazza il suo fascino non passava inosservato, era spesso ospite con il marito a casa di principi o dal medico o dal sindaco, in quelle occasioni a chi li aveva invitati non sfuggivano la sua grazia e i suoi modi raffinati, era una donna eccezionale: bella, colta, energica, intraprendente. In quell’aprile del 50, quando Tina ritirò dall’ufficio postale la lettera di Carlo, non avendo fissa dimora, rispose subito al genero, informandolo sull’indirizzo dell’albergo dove alloggiava a Portula. La guerra era finita, ma lei, nonostante fosse avanti con gli anni manteneva la sua classe e ancora una volta avrebbe provveduto alle necessità della figlia Marinella che si affidava a lei. Tina avrebbe chiamato un’ ostetrica che avrebbe assistito la figlia e… speriamo bene. Lo sapeva, il parto non era una malattia , lei stessa aveva partorito col solo aiuto delle altre donne per tre volte: Carla era nata a Borgo Sesia, poi Luigi a Brescia e da ultima Marinella che era nata a Follonica in Toscana. La soluzione più semplice, che aveva pianificato Tina, non si poté attuare perché l’albergatrice non diede la disponibilità a far partorire in albergo Marinella. In ospedale in quei tempi andavano solo i poveracci, così Tina attingendo alle sue conoscenze sul campo, ebbe il permesso dal capo stazione di appropriarsi momentaneamente di… un carro merci abbandonato sui binari morti della stazione. Tina lo fece pulire e disinfettare passandolo tutto con la calce, predispose l’occorrente e, quando fu il momento venne chiamata l’ostetrica. Tutto andò per il meglio e il 5 maggio del 1950 sono nata in un carro merci rimesso a nuovo. Gli anni passavano, Tina, classe 1897, invecchiava. Suo marito era morto. Il suo Nino tanto amato che aveva conosciuto, quando ancora il suo cognome era kursanovic, perchè di origine slava, e il fascismo in seguito lo avrebbe italianizzato in Curussani. Tina, giovanissima lo amava quando ancora faceva il tappezziere a Venezia, e lui soffriva per non poter vedere la sua Tina che viaggiava sempre. Sono del 1917, prima che si sposassero, le numerose lettere che erano intercorse fra di loro, una fitta corrispondenza giornaliera, dalla quale emergono la sofferenza per il distacco e le lamentele da parti di Nino per ”non aver ricevuto nulla da due giorni!”. Tutto era cambiato dalla sua morte, Tina sembrò invecchiare improvvisamente: Il mondo in torno a lei cambiava troppo in fretta, si sentiva sempre più stanca. Il cinema e l’avvento della televisione contribuirono a decretare negli anni 60 la fine del mondo di Tina. La compagnia si sciolse e i suoi rivoli si sparsero in tutta l’Italia. Cordiviola rimase nell’ambito teatrale con una sua compagnia a Vicenza ed ebbe molto successo anche come regista. i Nistri e poi Sergio Orlando, sfruttando il suo talento artistico, aprì una galleria d’arte a Milano. La figlia di Tina, Kyky, trovò lavoro come suggeritrice nel primo teatro stabile di Milano: ” Il Piccolo”, nella compagnia di Strehler, suo marito Osvaldo al Teatro dialettale “Gerolamo” con la compagnia di Mazzarella. Il suo secondo figlio, Bibi, vagò di compagnia in compagnia:(Gazzolo, Fantoni, Dario Fo) pur avendo moglie e casa a Valstagna, intervallò con piccole parti nel cinema e in TV ha interpretato la parte di un frate nei Promessi Sposi; ma a costo di fare la fame la sua passione rimase il teatro. Recitò anche nei “Masnadieri” al teatro Nuovo di Milano. Era un bravo attore e una volta per poter recitare aveva imparato la sua parte in Inglese, solo quella, solo la sua parte! Morì in treno, andando da un teatro all’altro, un treno che lo aveva accompagnato tutta la vita e che non lo ha voluto lasciare da solo in una stanza d’albergo ma se l’è portato via per l’ ultimo viaggio. Gli altri attori: Verdirosi, Minari, De Biasi, Giasone si tennero in contatto come si fa in tutte le famiglie. Tina, senza teatro, senza casa, e senza marito, si adattò a casa della figlia Kyky, in Toscana, poi a casa di Marinella, che nel frattempo si era trasferita in Lombardia. Un po’ da una, un po’ dall’altra. La sua presenza per i generi era ingombrante, per le figlie faticosa, Tina non ha mai abbandonato il suo ruolo di prima donna, ma si sa, troppe prime donne in una sola casa non vanno bene, così se per gli adulti era un problema per i suoi nipoti era tutta un’altra storia, per loro era Nonna Tina. Quando arrivava lo capivo dall’odore di fumo che trovavo in casa al mio rientro dalla scuola, era stato suo fratello Eligio, tornanto dalla guerra d’Africa ad avviarla a quel vizio. Nonostante avesse anche le dita giallastre io ero affascinata dal suo profumo: “violetta di Parma”. Mi dava i soldi come ad una persona grande e mi mandava dal tabaccaio a comperarle 5 sigarette: Nazionali senza filtro, che mi venivano consegnate in una bustina di carta oleata trasparente e scricchiolante. Andavo con lei al posto pubblico quando voleva telefonare; insieme camminavamo lungo il Bozzente, riportando a casa sassi colorati, foglie secche e ogni sorta di cose che per me erano tesori. Ascoltavamo la radio e quando c’era l’estrazione dei numeri del lotto bisognava assolutamente stare in silenzio. Come bisognava assolutamente stare composti a tavola e assolutamente parlare correttamente l’Italiano. Ero solo una ragazzina quando mi portò per la prima volta a teatro, anche allora pretese che stessi assolutamente in silenzio durante lo spettacolo; ma, quando Romeo decise di morire perché aveva visto Giulietta già morta scoppiai a piangere e lei mi strinse amorevolmente la mano. Un’altra prima volta fu quando mi regalò il profumo “Ca’ D’oro”, meno dolce del suo perchè diceva che per una ragazzina era meglio un profumo fresco. Giocavamo a briscola e si arrabbiava quando perdeva. Seduta accanto a lei ascoltavo estasiata tutte quelle storie che mi raccontava di quando era giovane e recitava, le trame degli spettacoli, gli aneddoti della sua compagnia e di quando Elettra piccolissima recitando la parte del figlio della Butterfly aveva fatto la pipì in palcoscenico. Oppure di quella volta che non si sentì lo sparo della pistola che in scena avrebbe dovuto colpire il cattivo di turno, ”e allora…” raccontava lei: “Nonno Nino prontamente prese dal tavolo un coltello e recitando a soggetto esclamò ” Ah…non vuoi morire… “ebbene ora ti uccido io” e mentre fingeva di accoltellare il cattivo, da dietro le quinte partiva lo sparo. Questo aneddoto mi fece molto ridere e quando successe davvero rise molto anche il pubblico, ma dopo ci fu una scenata perché le guittate facevano arrabbiare la nonna che era molto seria quando si trattava di teatro. Tina era una calamita: quando arrivava lei a casa nostra, dopo un po’ di tempo arrivavano a trovarci gli ex attori; io ascoltavo, senza capire perché fra di loro si parlassero e si rispondessero con stralci di drammi, con incipit di opere e brani di commedie. Evocavano i bei tempi passati, ma la propensione al melodramma faceva si che a volte si inalberassero: il loro tono cambiava, e io non sapevo mai se recitassero o fossero arrabbiati davvero. Il repertorio era vasto anche perché gli attori che arrivavano erano sempre diversi. Gli anni passavano, attraverso la nonna conoscevo le trame delle commedie, le opere e le operette, avevo imparato a memoria anche le papere memorabili di Mannussi che proprio non riusciva a recitare un pezzo abbastanza ostico del dramma “La fiaccola sotto il moggio” di Gabriele D’Annunzio, lei avrebbe dovuto dire: “Figliuolo mio, ti faccio un voto, ad ogni agugliata che traggo dal pennecchio. E come incocco e come do la torta, sei sempre meco nel mio filo pieno!” Puntualmente “come traggo” diventava “ come troggo” e…incocco diventava “incacchio” e naturalmente a seguire “do la torta” diventava do la trota!! Immaginavo che nonna Tina invecchiando si ripetesse, diventasse noiosa, invece lei riusciva sempre a stupirmi, per il mio diciottesimo compleanno mi regalò un bambolotto di gomma bruttissimo, con disegnata sul volto una barba scura e incolta con un grosso sigaro in bocca, un orecchino nel lobo dell’orecchio e capelli stopposi e lunghi; era vestito in modo trasandato e i jeans erano stracciati. Era una chiara allusione alla gioventù bruciata del 68. Naturalmente io non ero d’accordo. L’odore della plastica di questo bambolotto, dopo 47 anni e 5 traslochi è ancora lo stesso, solo un braccio si è staccato dal corpo e per me rappresenta la ribellione del 68. Trovavo in nonna Tina, anche quando fui più grande, una persona disposta ad ascoltare e a rispondere a quesiti scottanti. Lei mi spiegò perché certe volte si rimaneva incinte e certe altre volte no. Non mancava di informarsi sulle mie nuove cotte, mi consolava e mi rassicurava, dicendomi che avrei trovato presto il vero amore. Parlavo con lei di tutto ciò di cui non potevo parlare con gli altri. Non mi ha mai tradita. Quando morì non piansi. Quando morì non era più la mia nonna Tina, era un’anima persa, senza speranza, senza decoro e senza memoria. Quando morì ero arrabbiata. Quando morì ero da poco mamma e pensai alla vita. Pensai che lasciamo solo i nostri ricordi. Anche il suo mondo teatrale non c’ è più, si è evoluto, adeguato, ora ci sono più compagnie stabili, ma sempre, gli attori, recitando vecchie e nuove commedie, promuovono cambiamenti, stimolano dubbi, affascinano e incuriosiscono, fanno ridere, piangere e i grandi ritrovano lo stupore dei bambini. La recitazione degli attori arriva e tocca corde che il pubblico non sapeva di avere, non è un effetto immediato, a teatro ci vuole silenzio, attenzione e poi la magia a poco a poco cattura il pubblico. Tutto contribuisce: La scenografia, le luci, i suoni, gli effetti speciali, la postura degli attori nei loro costumi, il trucco, il tono della voce, l’ incalzare del monologo o un silenzio intrigante. Tutta questa finzione per arrivare alla verità. Il pubblico ne viene coinvolto e vi si trova al centro. Verità fastidiose, dolorose o gratificanti, verità intoccabili, scomode o addirittura dimenticate. Tutto in questa finzione riporta a temi universali e sempre attuali, non importa che la commedia si svolga ai tempi di Carlo V o che si parli di Tristano e Isotta. I Temi sono immortali: L’amore, il bene e il male, l’invidia, il potere, la fame , il sogno, la morte, la speranza… Dal tempo degli antichi Greci le storie si ripetono sempre diverse e sempre attuali. La scomparsa della nonna Tina è come il suo teatro. Nella tragedia della realtà una verità emerge: ha lasciato talmente tanto di sè in chi l’ha conosciuta che Il suo spirito è rimasto vivo. Il dolore lasciato dal vuoto fisico si riempe di ricordi.

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Portula 14-12-2015

Siamo in macchina, io e mio marito, dalle parti di Biella, come un riflesso penso: Portula, in provincia di Biella. Non ho mai visto dove sono nata.Dai andiamo a cercare la stazione ferroviaria di Portula, magari trovo il carro merci!” Il navigatore comincia a chiacchierare, Enrico che solitamente non ubbidisce neanche a lui, questa volta segue diligentemente le indicazioni e dopo poco tempo cominciamo a salire. E saliamo ancora. Mi agito, ma non ci sono dubbi, la strada è giusta, abbiamo appena incrociato il cartello comunale che indica la città di Portula.Ma sei sicura di essere nata in treno? Non vedo binari in giro”. Saliamo ancora ed è chiaro che qua su non esiste nessuna ferrovia. Ma non è possibile che sia una frottola! Mio padre quando voleva zittirmi diceva bonariamente: “ Taci tu, che sei nata su un carro bestiame abbandonato sui binari morti”. E poi c’ è mia cugina Elettra con la storia della cicogna, che quando era arrivata in stazione lei era già volata via e l’ostetrica che dopo il parto aveva detto che il vagone era perfettamente pulito e disinfettato, meglio che in certe case. Sono angosciata, ma si può arrivare a 65 anni e non sapere dove sono nata? Arriviamo in piazza, non c’è ombra di stazione ferroviaria e tanto meno di treni.Allora… cosa vuoi fare? Torniamo indietro?” No, non ci posso credere, non può essere una storia inventata, mia nonna non mi avrebbe mai mentito. Fammi andare a chiedere in Comune”A quest’ ora è chiuso!” Ma devo sapere, devo provare. Devo. Certa che il comune fosse aperto solo perché io ne avevo un disperato bisogno, scendo dalla macchina e mi avvio verso la porta del Comune con il cuore che mi batteva a mille. Abbasso la maniglia e spingo, è aperto! Al di là di un’altra porta a vetri intravedo un’impiegata. Prima di arrivare davanti al banco, mentre lei scrive china sulla scrivania il terrore che mi possa prendere per pazza mi assale. Devo scegliere bene le parole giuste,Buona sera” esordisco, “ senta, io sono Antonia Mascia e 65 anni fa sono nata qui a Portula però… mia mamma mi ha sempre detto che sono nata su un treno, ma… non c’è nessuna stazione qui a Portula e io… non so cosa pensare… insomma non so dove sono nata, lei non mi potrebbe aiutare?” L’impiegata resta impassibile, mi chiede un documento e dopo averlo controllato si dirige verso un armadio e dopo aver fatto scorrere le grosse ante ne trae un librone, lo porta verso la sua scrivania e comincia a leggere in silenzio, poi mette al corrente anche me, che friggevo dall’impazienza.Dunque… qui c’è scritto nata nella casa posta in frazione Granero numero 51”. In una casa a Granero? Al numero 51? Oddio a Granero, mai sentito nominare Granero, mi sembrava di essere uno di quegli impiegati che non capivano mai Portula.” SI, Granero è una frazione di Portula e lì c’è la stazione , ma adesso non funziona più.” Oddio, meno male che c’è la stazione” al n. 51, la mia nascita è piena di 5. Dietro di me si materializza Enrico, che finalmente aveva trovato parcheggio, l’impiegata dopo aver dato un’ occhiata veloce al librone lo guarda e chiede: ”il Signor Leoni?”Ma c’è scritto anche il suo nome sul certificato?”Certo, aggiunge lei e, dopo avermi letto parte dell’atto di nascita, cerca altre notizie, ma non ne trova. Io sono elettrizzata e non vedo l’ora di cercare la stazione. Chiedo di poter fotografare il documento ed essendo la persona interessata ricevo dall’impiegata la fotocopia, un bel foglione di 42cm.x 29,5. Ringraziamo ed usciamo in fretta, io col mio certificato in mano, Enrico ancora incredulo del fatto che io abbia trovato il Comune aperto a quell’ora. Fuori è già buio, e io sono in ritardo di 65 anni, devo correre a Granero ma... sento dentro di me un’ immensa gratitudine per l’impiegata che, pur senza farsi coinvolgere era stata molto educata e professionale. Decido di rientrare in Comune per ringraziarla meglio e farle capire come la sua disponibilità sia stata importante per me. Lei per la prima volta accenna ad un sorriso e mi spiega:È una coincidenza che oggi io sia qui a quest’ora, il Comune dovrebbe essere chiuso, sto registrando l’atto di morte di mia nonna che è appena scomparsa. Finalmente capisco perché prima la sentivo lontana e perché avevo avuto la necessità di tornare da lei, per esprimerle meglio la mia riconoscenza. Mentre mi parlava delle strane combinazioni, della necessità di sopire il proprio dolore, della nostra provvidenziale interruzione, osservo tutti quei particolare che prima non avevo letto in lei. È vestita interamente di nero, in forte contrasto col pallore del viso; il tono della voce ora non è più neutro, ma gli occhi sono un po’ gonfi come prima: tutto in lei avrebbe dovuto farmi pensare ad una persona affranta. Solo ora colgo il suo stato d’animo, e non so comunque cosa dirle, anche se posso immaginare il suo dolore. Mi dispiace tantissimo, la capisco, anch’io ho avuto una nonna speciale”. Peccato non avere avuto la prontezza di aggiungere, in quel momento, che i ricordi della sua nonna l’avrebbero aiutata. Ci siamo salutate come se ci conoscessimo da tanti anni, entrambe, credo, più leggere, se fra di noi non ci fosse stato il bancone sono certa che ci saremmo abbracciate. Risalgo in macchina e, mentre Enrico si dà da fare per raggiungere Granero, che aveva notato prima di cominciare a salire, io leggo avidamente tutti i particolari scritti sul mio certificato di nascita.Senti, c’ era anche mio padre. La denuncia di nascita in Comune è stata fatta quattro giorni dopo. Nessuno me lo aveva mai detto, sapevo che lui aveva spedito la mamma e Luciano a Portula e basta. C’è la testimonianza dell’ostetrica che ha assistito al parto e ci sono i nomi dei testimoni dell’atto, due impiegati del comune… senti, senti, sono nata alle 15-30. Elettra era ancora a scuola a quell’ora, per quello non ha visto la cicogna! Sono euforica, contenta e impaziente. Parcheggiamo l’auto davanti al numero civico 51, a destra e a sinistra di questa villa intravediamo nel buio alcuni depositi ferroviari. Si, sono nata qui. Suono il campanello, pensando che mi avrebbero scambiata per una venditrice ambulante, invece sono stati disponibilissimi i due coniugi che ci sono venuti incontro. Gli abbiamo raccontato grosso modo la storia, erano interessati, abbiamo chiacchierato un po’, loro conoscevano un sacco di cose, compreso il nome del capostazione che c’era negli anni 50. Ci siamo salutati con la promessa che saremmo ritornati. Stavo salendo in macchina quando la signora mi ha chiesto: “In che mese è nata?”A maggio, il 5 Maggio del 50, perché me lo chiede?Maggio è un bel mese per nascere qui, c’è il sole tutto il giorno”. Allacciandomi la cintura di sicurezza ho pensato: “cosa voglio sapere di più, sono nata in una bella giornata soleggiata.” Epilogo I ricordi di nonna Tina li ho sempre avuti con me e solo ora ne scrivo, grazie a Sandra, solerte impiegata del comune di Portula, che attraverso il suo dispiacere mi ha fatto capire che anche lei, come me, ha avuto una nonna speciale.

Entrando nella grotta del monte Kronio, su a S. Calogero, il soffitto è inizialmente basso e inarcato, subito a scendere, tre gradini ne complicano l’ulteriore ingresso e se tutto ciò non bastasse, una massa di aria calda a 40 gradi ti aggredisce quasi a sfidarti dall’entrare. Superato il primo sgomento, e la paura di scivolare sui gradini, procedendo verso destra la grotta si amplia, il soffitto a botte si innalza irregolare e il colore ocre della roccia le conferisce un aspetto elegante. L’aria calda che satura la grotta esce soffiando da un ampio buco situato nel fondo della grotta, quasi a livello pavimento, il buio che lo avvolge è inquietante e il suo collegamento con l’interno del monte Kronio lo rende misterioso. Sul lato opposto, ma decisamente più in alto un altro buco permette il passaggio di aria calda in un’altra grotta più piccola e il ricambio d’aria per entrambi è garantito da una griglia collegata all’esterno. A Sciacca queste grotte le chiamano anche stufe, i suoi effetti benefici erano noti anche agli antichi romani, e nell’ Antiquarium adiacente sono conservati reperti archeologici che testimoniano come fossero già presenti insediamenti umani in tempi remoti. Ore 8 del mattino, è il turno delle donne, ha inizio l’antroterapia. Quando la grossa porta si richiude alle spalle delle donne, alcune di noi si sono già sistemate sulle sedute in pietra direttamente scavate nella roccia, altre indugiano non sapendo esattamente dove sia meglio mettersi per poter scappare al più presto;chi più chi meno stanno tutte inesorabilmente già sudando, anche quelle che entrando in grotta si erano quasi bloccate sui gradini per vincere l’onda d’aria calda e asciutta. Siamo una quindicina, non ci conosciamo, per alcune di noi è il primo giorno e anche la prima volta, per altre, l’antroterapia è una cura termale consolidata negli anni. Oggi le donne siciliane in grotta sono solo due e anziché recitare il rosario come usava in tempi passati, ci spiegano come preparare la pasta con le sarde, e la strana storia dell’isola Ferdinandea prima emersa in mezzo al mare e contesa dai vari regnanti dell’epoca e in seguito risprofondata e visibile a 8 metri sotto il livello del mare. Ascoltiamo, e continuando a sudare come pazze ci rendiamo conto che ognuna di noi proviene da ogni angolo possibile dell’Italia, ognuna di noi nutre speranze in questa terapia che ci costringe a stare rinchiuse 20 minuti in una grotta a 40 gradi: chi spera di dimagrire “ma in Sicilia è praticamente impossibile perché si mangia troppo bene”, chi spera di attenuare i dolori che durante l’inverno ti attanagliano e ti costringono ad assumere farmaci, c’è chi addirittura si illude che le possano ricrescere i capelli. Le confidenze delle donne si fanno largo colorite dalle cadenze dialettali più disparate, la spontanetà si coglie al volo, ad alcune di noi viene voglia di raccontarsi; se comincia una, le altre prendono coraggio e seguono, il calore è molto, in tutti i sensi! Dopo dieci minuti di terapia il nostro angelo custode entra in grotta e ci chiede se tutto va bene, si, tutto va bene ma non sarà sempre così, nei successivi giorni di terapia alcune di noi non ce la faranno e chiederanno, bussando sulla grossa porta, di uscire, perché le nostre chiacchiere non sono riuscite a distrarle tanto da sopportare il caldo e la claustrofobia. L’appuntamento delle 8 del mattino in grotta non è più solo cura termale, chi nei giorni precedenti stava discosta ora si è avvicinata, chi non parla di se racconta le meraviglie della Sicilia che va scoprendo, Chi è del luogo vuole conoscere la realtà delle nostre città. La grotta è diventato il nostro salotto privato, c’eravamo solo noi donne, senza trucco e senza inganno: libere, sincere, spontanee, siamo in costume, alcune indossano una cuffietta per proteggere i capelli, altre senza occhiali ci vedono poco, alcune di noi sono in forma smagliante, altre un po’ meno, la nostra età varia dai 25 anni ai 70. Chiudendo la porta è come se avessimo lasciato fuori, anche mentalmente, tutti gli altri: mariti, ex mariti, figli, nipoti, suocere, nuore, ecc. ecc. Ci siamo regalate una complicità al femminile, per un tempo breve ma intenso e carico di emotività. Eravamo finalmente solo donne, con i nostri desideri e delusioni, le nostre aspettative e i nostri sogni o semplicemente desiderose di progetti futuri che ci riguardassero. E’ stata un’esperienza fantastica, non so quanto farà bene l’antroterapia a me e alle altre donne, di sicuro mi viene da dire: Viva le donne in grotta! Ma fuori dalla grotta riuscirà la mia nuova amica Giacoma a riprendere in mano i vecchi appunti che aveva scritto ascoltando e assistendo anziane signore: vecchie filastrocche e canzoni in dialetto siciliano molto stretto che altrimenti andrebbero perse, lei cantava con loro e le incitava a proseguire quando la loro memoria riaffiorava. A Giacoma piacerebbe riordinare quelle carte, scrivere di questa sua esperienza, ma è una nonna molto occupata e non sa se ci riuscirà, in grotta però le brillavano gli occhi quando parlava di questa sua passione e cominciava a desiderare di poterci riuscire. E quell’altra Signora di Matera che avrebbe voluto conoscere la realtà di Pisa, al di fuori della bellezza turistica: voleva sapere, confrontare quello che aveva letto in proposito, la sua era una curiosità colta e vivace. Fuori dalla grotta riuscirà ad essere altrettanto entusiasta o si relegherà nel suo ruolo di donna anziana? Altre, dopo aver raccontato le loro emozioni nel godere delle bellezze della Sicilia, vorrebbero organizzare altri viaggi. E Olimpia, che si è scoperta pittrice, e non lo sapeva! Ora si è messa a studiare con un’energia e un’ entusiasmo che ci ha contagiate. Ma anche lei fuori dalla grotta dovrà lanciarsi in una miriade di sfumature per scegliere, equilibrare, dosare e posizionare quel movimento di colori, al fine di catturare il suo personalissimo modo di dipingere. A me sarebbe piaciuto scrivere subito di questa bella esperienza e sono dovuti passare due mesi prima che ci riuscissi. Insomma fuori dalla grotta è tutto molto più difficile, però se prima non ci fosse una grotta in cui poter sognare, diventerebbe impossibile sentirsi vive. Per cui ribadisco: viva le donne in grotta.

Mi torna difficile ricordare i titoli dei libri letti, ancora di più il nome degli autori o autrici se magari sono stranieri. Anche le trame, a distanza di tempo, evaporano e i personaggi a volte si confondono. Ma allora cosa resta di un libro a distanza di anni? Amo pensare che quello che mangiamo contribuisca a cambiare e mantenere il nostro corpo, così immagino anche che la lettura stimoli ed aiuti la mente a crescere e a rinnovarsi continuamente. E’ quindi un vero peccato non ricordare i libri letti, così su di un quaderno annoto: Autore, titolo del romanzo, data di lettura e poi poche parole che mi riportino alla trama oppure un solo aggettivo. E’ estremamente riduttivo ma quegli aggettivi, quelle poche parole sono chiavi che fanno scattare la serratura di scrigni al cui interno ritrovo tesori che non ricordavo di avere ma che mi apparterranno per sempre. Il romanzo l’amico immaginario di Matthew Dicks è commuovente, coinvolgente, e la voce narrante di Budo, che è l’amico immaginario di Max rivela fino in fondo quali siano i pensieri dei bambini e il perché dei loro comportamenti. Rivela come la fantasia li possa aiutare, come gli adulti possano essere crudeli e in fine come un amico immaginario possa essere realmente un amico disinteressato. Si legge nella prima pagina Ecco quello che so: Mi chiamo Budo. Esisto da cinque anni. Cinque anni è una vita lunghissima, per uno come me. E’ stato Max a darmi questo nome. Max è l’unico essere umano che riesce a vedermi. I genitori di Max mi chiamano l’amico immaginario. Voglio molto bene alla signora Gosk, la maestra di Max. Invece l’altra maestra, la signora Patterson, non mi piace per niente. Non sono immaginario. Questa prima pagina è un capolavoro e nemmeno le altre scherzano! Altri amici immaginari aiuteranno Budo e Max, che è un bambino autistico, a districarsi in questo giallo avvincente. Uno però mi è rimasto impresso più degli altri: Oswald, che nella storia ha sicuramente il suo peso, in tutti i sensi perché viene descritto grande, grosso e picchiatore. E’ a Lui che l’autore affida una disquisizione sul coraggio di Max. Ne sono rimasta colpita. Sul quaderno affianco all’autore Matthew Dicks, al titolo L’amico immaginario e alla data , ho scritto: Commuovente. Formidabile il coraggio di Max.

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Certe volte, leggere un piccolo libro è come gustare un delizioso bocconcino. Il racconto di Luis Sepùlveda intitolato Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico ne è un esempio. L’amicizia fra l’umano Max, il gatto Mix e il topo Mex è l’ingrediente principale. Assaporando bene ogni pagina non sfuggono altri ingredienti come solidarietà e sostegno. Il profumo della libertà è intenso, la comprensione è soffice e l’unione ha un sapore forte. L’ incitamento, la condivisione e l’ altruismo sono sapientemente dosati. Un bocconcino che non si fa mancare nemmeno un retrogusto a sorpresa che ti spinge a gustarlo in un sol boccone. Un bocconcino delizioso, che nutre senza appesantire. Il tutto avvolto in una fantasia spumeggiante. Per un piccolo assaggio elenco di seguito alcune frasi del racconto da cui ho tratto tutti gli ingredienti Gli amici si danno man forte, si insegnano tante cose, condividono i successi e gli errori. Un amico si prende sempre cura della libertà dell’altro. Un amico capisce i limiti dell’altro e lo aiuta. I veri amici si prendono sempre cura uno dell’altro. Quando gli amici sono uniti, non possono essere sconfitti.

La mia gatta centra poco in questo bellissimo romanzo, ma… in fondo… La terra selvaggia del Primorje, situata nell’Estremo Oriente russo è il teatro dove il terribile predatore compie la sua vendetta. Ma perchè lo fa? Il giallo che avvolge l’intero romanzo LA TIGRE è scritto magistralmente dallo scrittore e giornalista John Vaillant e suscita molte emozioni e riflessioni. Nel romanzo Vaillant ci parla di economia, di storia, geografia. Di uomini e animali in continua lotta per la sopravvivenza, ci racconta di incontri tra uomini e tigri. Ma anche di tragedie causate dal predatore più intelligente e letale del pianeta. In seconda di copertina, tra l’altro è scritto:”Ti uccide prima ancora di toccarti. Il suo ruggito è come un terremoto che sembra provenire da ogni direzione, un suono forgiato dall’evoluzione per stroncare il sistema nervoso delle vittime. Ma quando vuole può essere silenziosa come la neve che cade: un proverbio della taiga dice che “quando tu riesci a vederla, lei ti ha già visto cento volte”. Questa avventura siberiana è una storia vera, e alcune foto ci mostrano i volti dei protagonisti. Altrettanto autentica è l’ammirazione per la competenza e dedizione che ho provato per il guardiacaccia Jurij Trush. Come è stato vero lo sconcerto nell’apprendere la durezza della vita dei tagliaboschi, prima e dopo della Perestroika. Quando ho finito di leggere il libro intitolato La tigre di John Vaillant mi sono sentita euforica per il finale lungimirante e anche emozionata per essermi trovata nella natura selvaggia della Taiga. Ho potuto conoscere più a fondo la tigre e il filo che ci lega ad essa. La coesistenza con lei, dipende da noi. Lo dice chiaramente, nelle ultime pagine del romanzo, John Goodrich, coordinatore del Siberian Project:” Perché le tigri esistano, dobbiamo volerlo”. Oggi come non mai. Ho sempre pensato alla mia gatta come ad una piccola tigre: indipendente, fiera e un po’ misteriosa. Forse è vero quello che ho letto su di un bigliettino: il gatto è stato creato perché l’uomo potesse accarezzare una piccola tigre.

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Si immagina che un libro il cui contenuto tratti di argomenti storici debba essere: noioso e pesante.Personalmente ho letto molto della Bellonci e mi ha sempre stupito la sua capacità di rendere la storia con la esse maiuscola così fruibile.

Leggere il romanzo storico di Luciana Benotto: L’arme e gli amori io canto, è stata una vera rivelazione, un piacere iniziato fin dalle prime pagine, mai un momento in cui ti venisse voglia di interrompere la lettura. La ricostruzione storica è precisa, dei personaggi non è stato tralasciato nulla: l’aspetto fisico, i malanni, le ambizioni, i desideri, i dubbi le paure, le miserie, le passioni e gli amori. L’intreccio è incalzante e ricco di particolari interessanti, le azioni, a tratti cruente possono svolgersi in momenti di dolcezza e  l’autrice facendoci partecipi della sua storia ci regala anche momenti di poesia. Passeggiamo con lei per le calli di Venezia, e ci stupisce mettendoci al corrente dei rimedi che già gli speziali veneziani proponevano ai loro clienti. Ci racconta della manualità degli artigiani,  della bravura degli artisti. Non mancano le  difficoltà degli spostamenti, e la  vita dura che si alterna con lo splendore  e la raffinatezza dei doni, delle feste e delle corti del rinascimento.

Il romanzo: L’arme e gli amori io canto è un libro colto senza essere pedante, a piè pagina ci sono tutte le indicazioni storiche che permetteranno al lettore di approfondire la lettura se lo desidera.

E a questo punto io desidero leggere gli altri libri che ha scritto  Luciana Benotto, nella speranza che mi facciano volare lontana come è successo con questo bel romanzo.


Chissà come sarà questa ginnastica dolce? Per una golosa come me dovrebbe andare bene! Bisogna provare, così mi ritrovo in palestra con altre donne che corrono in tondo, con al centro l’insegnate.

Stabilito che la ginnastica dolce fa al caso mio che sono alquanto arrugginita, il lunedì successivo, nella sala professori che funge da spogliatoio mi unisco alle altre: chiacchiere, presentazioni, cambio di scarpe e abiti.

L’insegnante ci aspetta in palestra ed ha già selezionato un cd con musica degli anni sessanta. Quel che ci vuole per noi che veniamo catapultate nella passata gioventù, il volume del lettore cd non funziona ed è decisamente alto, due asciugamani come copertura ne attenueranno l’intensità.

Inizia il riscaldamento: nonostante siamo un po’ lente e scoordinate, sudiamo, sbuffiamo, ci lamentiamo ma riusciamo lo stesso a chiacchierare; l’insegnante ci incalza e quando è soddisfatta dopo averci lodate ci informa che siamo come un motore diesel: un po’ lente all’inizio ma quando partiamo non ci ferma più nessuno!Continuiamo con entusiasmo, la palestra è luminosa, il pavimento in legno lucido è confortevole, ma quando l’insegnante pronuncia la frase: fronte allo specchio, alcune di noi si lamentano: “Questo specchio è impietoso, guarda li che roba”. Sei metri di specchio ci riflettono: una ventina di donne, chi più chi meno vestite sportivamente, alcune ben pettinate e truccate, altre hanno già i capelli davanti agli occhi e lo sguardo sconvolto per la fatica, chi ansima e chi continua a chiacchierare.“ Sembriamo anche più basse, non è valido”! Ma la nostra insegnante ci rassicura:“ E’ lo specchio che deforma, non preoccupatevi.”

Mercoledì, l’insegnante ci aspetta in palestra e come al solito è sorridente, noi arriviamo alla spicciolata, le novità non mancano, fra di noi c’è una nuova nonna, ma… il paese è piccole e alcune di noi già lo sapevano.

Gli esercizi di riscaldamento non sono sempre gli stessi, le sequenze dei movimenti ci impegnano e finalmente nessuna chiacchiera.

Dopo il riscaldamento, il momento più atteso, tutte sdraiate a terra su di un materassino: vengono spente le luci artificiali e nella penombra il lettore cd che è stato sostituito da uno nuovo diffonde musiche rilassanti, qualche sospiro, qualche respiro profondo, ci godiamo qualche attimo di tregua e poi si ricomincia: “Gamba sinistra piegata a terra, gamba destra tesa in avanti, poi in alto.” Lei spiega a noi come fare gli esercizi mentre li esegue, ci controlla e ci corregge, ma come farà a fare tutto assieme?

Gli esercizi si susseguono, gli addominali sono tosti e ci lasciano ammutolite, altri esercizi apparentemente leggeri li sentiremo un paio di giorni dopo. Lei continua scandendo ad alta voce:“ Insieme, insieme, ancora quattro, ancora tre, due, uno”. Le contestatrici non mancano: “Ma ne abbiamo fatti già 10”, lei sempre sorridendo ma inesorabile prosegue: “Insieme, insieme! Ancora due, ancora uno.”

Il rituale dello snocciolamento della spina dorsale e i due respironi profondi abbinati alla flessione del busto segnano il termine della lezione e…ci giunge sempre gradito un “Brave”, con l’aggiunta di un sorriso e di un battito di mani protese verso l’alto.

E’ la prima ad arrivare ed è l’ultima a chiudere la porta, noi davanti a lei ancora chiacchieriamo!Questa ginnastica dolce non è riuscita a spomparci del tutto. Ci salutiamo dandoci appuntamento per la prossima lezione.

Dolce la ginnastica e dolce anche l’insegnante.

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Presentare i propri libri in una cartolibreria è un’occasione interessante, se questa cartolibreria si chiama :”Sole e Luna” e vende anche fiori, l’occasione diventa fantastica.

Il titolo dato all’iniziativa da Luciana Benotto non poteva essere più appropriato: Fioriscono libri.

Era tanto tempo che non parlavo più dei miei libri: La quinta barca è Magica e Strettamente Personale. Ne ho proprio voglia. Perché li ho scritti? Chi mi ha ispirato? Chi me li ha corretti? Chi ha insistito perché continuassi? Di cosa parlano? Già, di cosa parlano? Forse per un autore è la cosa più difficile; come riassumere una fatica che è durata (per me) un anno in poche righe senza tradire l’impegno e la meticolosità con cui si è scritto. Come non banalizzare una storia dovendo scrivere: Mio marito ha costruito anche un catamarano e poi siamo partiti… E’ forse in quell’ anche che sta la chiave: i retroscena, il lavoro, la fatica, la soddisfazione e il premio finale: Il viaggio in barca a vela che non è sempre come fanno credere in TV: tutto rose e fiori! Ma la nostra quinta barca e’ Magica di nome e di fatto. Un’avventura tutta vera fin nei minimi particolari, complice il diario di bordo che ne ha fornito la traccia. “La quinta barca è Magica” libro per sognare.

Altra storia Strettamente personale, scritto perché volevo parlare di emozioni, paure, sogni e attenzione. Inventare è stato più difficile, una vera sfida; in più i nove racconti che compongono il libro hanno un comun denominatore: il compleanno. Ma anche per questo libro ci sono i retroscena: Uno dei compleanni è proprio vero! Ed è quello che ha dato il via a tutti gli altri: storie di biglietti, e di regali, racconto che evoca un Natale passato, racconto che non indica solo la nascita biologica. “Strettamente personale” libro per pensare.

Se volete saperne di più, vi aspetto sabato 21 aprile alle ore 17,30.

L’iniziativa proseguirà Aperitivi con l’autore

Lella Mascia Leoni: Sabato 21 aprile 2012

Elvio Ravasio e Marta Leandra Mandelli:

Sabato 28 aprile 2012

Elisabetta Galli: Sabato 5 maggio 2012

Chiara Panzuti: Sabato 12 maggio 2012

In Via Roma al n:2 di Bernate Ticino la mano felice di Silvana ha trasformato un cortile anonimo in un giardino fiorito. L’interno dove gli autori presenteranno i loro libri e offriranno l’aperitivo mi hanno detto essere ampio! Per cui vi aspettiamo numerosi.


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Roberto  Benigni è un attore, un  comico, un regista e sceneggiatore. Nel 1991 nelle università, nei teatri e alla televisione ha entusiasmato le folle raccontando la Divina Commedia.

Che le sue conversazioni sui canti della Divina Commedia fossero state seguite (o come dice lui intercettate) dalla Einaudi l’ho scoperto leggendo il libro: IL MIO DANTE di Roberto Benigni.

Mentre leggevo  ho avuto l’impressione di vederlo saltellare, parlare con cadenza toscana e  il  tono, l’enfasi e la sua  passione mi hanno portata direttamente all’inferno e in altri luoghi,  a visitare personaggi che la  memoria scolastica aveva dimenticati. Quando comprendi ti viene voglia di rileggere e in questo libro  ci sono anche i canti citati da Benigni. Non entro di proposito nei dettagli perché è Dante il maestro, perché è Benigni  il fine raccontatore.

La quarta di copertina  comincia così: Un libro scanzonato, leggero e dottissimo per chi ama la poesia…

E’ un libro che consiglio vivamente.

Il libro di Dominique Lapierre : Un arcobaleno nella notte, è una vera e appassionante lezione di storia. Il giovane chirurgo Jan van Riebeeck viene spedito dai governatori olandesi, gli Heren, sulla punta del capo di Buona Speranza il 6 aprile del 1652. Non per conquistare territori, invadere e sottomettere gli africani, bensì per piantare insalata. La questione e terribilmente seria: bisogna debellare lo scorbuto che decima gli equipaggi della flotta della prima marina nel mondo. La famosissima Compagnia delle Indie orientali rischia il fallimento. Sbarcano così i primi coloni olandesi in Sudafrica, che ancora non esisteva, come non esistevano gli Afrikaner, loro discendenti, e la loro nuova lingua l’Afrikaans. Una storia nata per salvare dallo scorbuto i marinai e di conseguenza salvare gli interessi delle società olandesi. Sono infatti queste società che hanno permesso negli anni precedenti di far diventare Amsterdam il centro commerciale, finanziario e culturale d’Europa. Rembrandt ed altri artisti saranno contemporanei di quei tempi in cui la chiesa riformata olandese recita i salmi della bibbia “Beati gli uomini le cui offese saranno perdonate”. Una storia che sfocerà ai tempi nostri con la terribile realtà dell’apartheid. Per concludersi dando agli africani un nuovo Sudafrica. E’ una lunga storia di bianchi e di neri, di uomini e di donne, di atti eroici, meschinità e atrocità inaudite. Naturalmente la religione viene usata come scusa, e diamanti e oro saranno la causa di molti mali. Leggendo questo libro ho ritrovato nella memoria molti nomi, molti episodi, molti pezzi di giornali radio che pur avendomi scioccata nel periodo in cui accadevano, non erano riusciti a darmi quella completezza che ho trovato in questo memorabile romanzo. Una parola però non ricordavo: Verità e Riconciliazione. Alla cerimonia della sua investitura, Nelson Mandela si rendeva conto della volontà di vendetta di tante vittime dell’oppressione razziale. Si legge a pag. 313: IL presidente doveva trovare urgentemente il modo per impedire che quella volontà immergesse il paese in un bagno di sangue. Si rivolse ad uno dei più emblematici sopravvissuti al terrore bianco. Invece di un tribunale che avrebbe giudicato i colpevoli come era accaduto per i criminali nazisti al processo di Norimberga, l’arcivescovo Desmond Tutu propose di istituire una commissione che avrebbe offerto il perdono della nazione a tutti coloro che avessero accettato di rivelare i crimini commessi in nome dell’apartheid. Una sfida rivoluzionaria che Nelson Mandela accetto con entusiasmo. Verità e Riconciliazione: sarà questo il suo nome. Furono più di settemila i colpevoli che accettarono la sfida e presentarono la domanda di amnistia. Questa pagina per me è stata la più illuminante. Il germe della riconciliazione come voleva l’arcivescovo Desmon Tutu era stato piantato attraverso la pubblica ammissione dei crimini. E anche quel versetto della Bibbia che viene usato da Dominique Lapierre come… fatale appuntamento: “Beati gli uomini le cui offese saranno perdonate”. Mi sono domandata come mai del dramma del Sudafrica siano passate solo ingiustizie e atrocità. Forse il pubblico vuole questo e l’informazione si adegua. Forse però, il pubblico andrebbe educato a capire. Il concetto sempre attuale di: Verità e riconciliazione trova spazio di applicazione: ovunque e sempre. Dominique Lapierre ce lo insegna nel suo libro: Un arcobaleno nella notte. P.s. Sono io che sono ingenua oppure pensate anche voi che l’informazione dovrebbe anche darci buone notizie?