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3

E’ successo. E’ successo un’altra volta: “Abbiamo venduto la barca”. La quinta, quella “Magica”.

Quando Enrico ha lanciato  l‘annuncio su internet, ero convinta che sarebbe passato inosservato, ero convinta che avremmo veleggiato per un mese, ero convinta che un catamarano auto costruito avrebbe dovuto incontrare proprio un amatore. E’ stato così che abbiamo conosciuto Pippo; è arrivato subito per vedere la barca. Il catamarano ancora sporco, ancora a terra e disarmato ma a lui è piaciuto ugualmente, aprendo i gavoni è rimasto meravigliato di sentire il profumo del legno e di vedere ancora residui di segatura.

Ma come, non abbiamo ancora cominciato le ferie e già c’è un compratore: uno che ama il mare e la vela, navigatore oceanico, skipper freelance, e anche istruttore di vela, uno tosto che ha anche capito perfettamente come è stata costruita la barca.

Difficile non volergli subito bene, lui dirà in seguito che lo abbiamo adottato, è vero! Pippo ci è subito piaciuto: la parlantina spedita, ma mai parole a vanvera, ci racconta di lui, delle traversate atlantiche, dei progetti futuri e di quello di cui si occupa adesso. Un giovane quarantenne pieno d’entusiasmo, pensa già di dotare Magica di pannello solare per alimentare un impianto stereo.

E’ a questo punto che ho capito che era giusto che Magica passasse di mano: per rinnovarsi, per rimanere giovane e… Pippo è proprio quello che ci voleva per lei.

8

La via Biringhello era di razza contadina, si allungava scavata nei campi, anonima, quieta, all’apparenza deserta. Ma come i contadini anche lei nascondeva un sacco di segreti. La rivedo ancora, un po’ sbilenca, e piena di sassi, se  c’era il sole  la polvere sbiadiva il verde ai suoi lati per riprendere brillantezza poco più in là. Se invece pioveva le buche si allagavano  formando un mare d’acqua che persisteva a lungo, per questo i Rhodensi l’ hanno soprannominata: ” Il Mar di Biringhello”. Ci sono ancora oggi degli anziani che per sottolineare il fatto che non andranno in ferie dicono: “Andremo al mar di Biringhello”.

La strada era una scusa, un mezzo, un punto di partenza dal quale ti potevi aspettare di tutto. Bastava costeggiare la cinta del campo sportivo, poco distante,  per scovare fra l’erba alta i ricci. Bastava che i contadini alzassero le chiuse dei canaletti per irrigare i campi che subito i tuoi piedi si tuffavano in quell’acqua gelida che ti trascinava e dovevi tenerti ben salda. Bastava che qualcuno scovasse l’erba che suona per sbizzarrirti in un concerto improvvisato, oppure tutti a buttarsi in quella macchia color violetto per succhiare l’attacco di quei  fiorellini dolcissimi. C’era l’erba che masticandola sapeva di limone, l’ortica che bruciava, altre che infilate nella schiena facevano il solletico. Raccoglievamo margherite, viole e gigliucci, passavamo ore e ore alla ricerca di un quadrifoglio. Più comuni invece i soffioni del tarassaco, che usavamo per soffiarceli l’un con l’altra. A volte l’erba era tanto alta da potercisi nascondere, oppure eravamo piccoli noi, non so!

In quell’intrico di erba, rametti e arbusti, a lato di strada, scorgevamo nidi e formicai, salvavamo gattini abbandonati, e portavamo a casa piccoli di merlo che nutrivamo con carne trita e pezzettini di frutta.

Oltre alle macchine agricole, in Via Biringhello  ci passava il carretto dei gelati che per annunciarsi  suonava il campanello, e noi, tutti a casa, per farci dare cinquanta lire, poi eravamo tutti attorno al carrettino ad aspettare il nostro turno, allungavamo il collo ogni volta che il gelataio alzava il coperchio per affondare la paletta nella panna o nel cioccolato, richiudeva per non farlo sciogliere  e dopo aver riempito un cono passava a prepararne  un altro, e noi sempre li ha sbavare, a controllare che il nostro cono fosse grande come quello degli altri. Pedalando  era arrivato il gelataio vestito di bianco e pedalando proseguiva verso la frazione di Biringhello.

Sulla via Biringhello c’erano poche villette ma quando altri uomini  passavano le donne spuntavano improvvise a farsi molare i coltelli e le forbici dall’arrotino che era vestito di nero. Anche noi accorrevamo e ci fermavamo incantati a guardare la mola che girava e affilando i coltelli spruzzava acqua.

Arrivava un furgoncino con stoffe, calze, fazzoletti e abiti; e di nuovo tutti in strada a mercanteggiare sul prezzo di una camicia,  a ridere del colore di un vestito, a saltare sul furgone!

La strada era la nostra pista per correre, i suoi bordi ci servivano da trampolino di lancio, le sue buche erano ostacoli da saltare, i sassi macigni da spostare, i rospi mostri da sconfiggere. Le ampie pozzanghere ancora scure per l’umidità ma già segnate dalle crepe ci fornivano del fango fantastico per farci di tutto. Eravamo sempre o  impolverati o  infangati, con le ginocchia sbucciate, gli abiti  sbrindellati e il moccico al naso. Eravamo felici e non lo sapevamo!

Poi… molto poi… hanno asfaltato la via Biringhello e quando piove  resta ancora allagata! Questione di pendenze? di scarichi? non si sa!

Ieri ho raccontato a mia nipotina la storia del Mar di Biringhello e comunque, il primo giorno di pioggia la porterò a conoscere questo specialissimo mare!I


7

La signora Narrini  ci aveva pensato un po’ prima di suonare il campanello degli Astoni.

La sua amica Franchina, che prima di lei si era sposata, che prima di lei aveva arredato casa e proprio  un anno prima di lei aveva avuto una bambina,  l’aveva messa in guardia su tre cose fondamentali: mai  un pavimento in marmo, mai portare di notte  nel lettone tuo figlio se piange, mai familiarizzare con i vicini di pianerottolo.

Nei primi sei mesi di vicinato gli Astoni si erano limitati al:“Buon giorno e buona sera”, come del resto avevano fatto loro, i Narrini. Qualche parola di più nei mesi successivi incontrandosi nel viale del condomino o aspettando l’ascensore per salire poi insieme all’ottavo piano, I Narrini con il figlio piccolo in braccio, gli Astoni col cane grande al guinzaglio.

La Signora Narrini  non si preoccupava più quando sentiva aprirsi e chiudersi la porta dell’ascensore dopo la mezzanotte, sapeva che il suo vicino di pianerottolo  aveva portato fuori il cane per l’ultima passeggiatina; quella mattutina invece, toccava alla moglie, prima di andare in ufficio.

Non c’erano in realtà molte occasioni d’incontro ma…dalle pareti che dividevano i due appartamenti  l’atmosfera traspariva serena: mai un litigio, mai alzate di voci, solo il povero Ringo veniva redarguito se abbaiava.

La Signora Narrini pensava che fosse un vero peccato non familiarizzare con i suoi vicini che le sembravano così educati, per esempio, se ci fosse stata più confidenza fra di loro adesso avrebbe potuto portagli il risotto di pesce avanzato per Ringo, era un vero peccato buttarlo. Pensava anche che forse la sua amica Franchina fosse stata meno fortunata di lei con i vicini di pianerottolo e che si poteva provare a fare un primo passo. Certo il Signor Astoni aveva una corporatura massiccia e un barbone nero che un poco di soggezione la metteva. Si augurava per tanto che ad aprirle la porta fosse la Signora.

“Buona sera” disse lui, e subito lo sguardo si posò sul tegame che lei teneva con entrambe le mani.

“Buona sera” rispose lei incerta e cominciò a spiegare “Abbiamo avanzato del risotto di pesce e… pensavo che per Ringo potrebbe andrebbe bene, sa…per non farlo andare sprecato, sarebbe un vero peccato.

“Ma… è di oggi?” aveva cominciato a chiedere lui.

” Si si, è la cena di questa sera”.

“Ma… è un avanzo dei piatti” continuava ad indagare lui.

La Signora Narrini già pensava di aver fatto male a suonare il campanello dei vicini, e quante storie faceva.

“No, non è un avanzo dei piatti ” rispose un po’ imbarazzata, quello nei nostri piatti lo abbiamo  mangiato tutto, è che ho esagerato con le dosi e questo è quello che è avanzato”.

Seguì un attimo di silenzio, l’una difronte all’altro, lei che in piedi sullo zerbino  reggeva sempre  il suo tegame e attendeva una risposta. Lui, titubante non si decideva a risponderle. Poi tolse  lo sguardo dal tegame e guardandola  finalmente in faccia disse tutto d’un fiato:” Ma… mi scusi Signora, non lo posso mangiare io?”.


4

E’ parecchio che non  leggo un libro, che non vado ad una mostra, che non frequento una sala cinematografica e non sono andata più a teatro. Ironia della sorte, per motivi tecnici, non sono più riuscita ad ascoltare musica. Cosa mi sia mancato di più in questo periodo è difficile dirlo.

Il senso di isolamento è stato totale.

La conseguenza è stata una specie di letargo mentale. Le mani, quelle no, quelle hanno continuato a lavorare, le gambe a correre; solo la neve e il gelo dei primi mesi di quest’anno sono  stati  capaci di rallentarmi quasi a sentirmi una… bradipa!

Come nel più classico degli incubi anche a me è toccata la fortuna di svegliarmi. Ora tutto sta andando nella direzione giusta, non senza problemi, naturalmente ma quelli pare che siano il condimento quotidiano. La nuova casa mi accoglie con i suoi muri imbiancati e i pavimenti levigati, il profumo di nuovo è commuovente, la voce ancora si perde per la mancanza di mobili e la caldaia, finalmente, funziona.

Tra gli scatoloni ho già adocchiato un libro da leggere, ho ritrovato i cd, letto le e-mail, e ora spero di riprendere a scrivere. Scusate il lungo silenzio ma…ero molto stanca!






Capitolo tratto dal romanzo: LA QUINTA BARCA E’ MAGICA

IL TONNO MASCHIO, in mezzo al mare, luglio 98

Quando Alberto era piccolo, Enrico non resisteva alla tentazione di giocare, la vigilia di Natale, con il regalo che avevamo scelto per lui. Era un classico: Alberto, verso le 21 andava a letto e Enrico verso le 22 scartava il regalo, lo montava o ci metteva le pile, si stupiva per la semplicità con la quale era stato realizzato e si divertiva a controllarne i meccanismi, immancabilmente faceva rumore e io dovevo zittirlo temendo che Alberto si sarebbe svegliato.
Dopo venticinque anni Enrico non è cambiato, ha sempre voglia di giocare con i regali che fa agli altri e, siccome con quelli di Alberto non può più farlo, quest’anno ha giocato con il mio, e devo dire che anch’io ho partecipato e Alberto con la nonna hanno fatto da spettatori.
Era un regalo lungo lungo, stretto stretto, leggero leggero e ad una estremità c’era legato un altro pacchetto.
In previsione delle ferie con Magica, Enrico mi aveva  regalato una canna per pescare alla traina.
In soggiorno, io facevo il pesce che aveva abboccato e Enrico, dall’altra parte, il pescatore che cercava di recuperarmi, io resistevo, la canna fletteva e Alberto e la nonna ridevano, ma Enrico (che non é un pescatore) era in difficoltà perché il mulinello era montato in modo sbagliato.
Che figura! meno male che in ferie con noi verrà Piero che è un pescatore coi fiocchi, se no col cavolo che noi prenderemmo dei pesci.

Nel primo tratto di mare aperto, fra Viareggio e Capraia, Piero, che era l’unico a non essersi dimenticato della canna da pesca, armeggia con una scatola che riconosco: era con il mio regalo di Natale e contiene le esche per pescare.
“Dai…dai… Piero che peschiamo”. Il pesciolino finto che funge da esca è mostruoso: grande, coloratissimo, ha una specie di paletta di metallo in bocca e sui fianchi un numero impressionante di ami decisamente robusti, imparerò più avanti che quelle esche si chiamano minnows e sono molto costose. Piero effettua le varie operazioni con precisione e con cognizione di fatto, è un bravo pescatore lui, ma mi ha pregato di non spiegare nei particolari le sue prodezze.
Certo che se prendessimo un bel pesciotto! Piero trova un posto strategico per piazzare la canna e per un po’ aspettiamo, poi ci stufiamo, e poi proprio ci dimentichiamo. Enrico è ancora preso con la pompa dell’acqua che scatta da sola, presume una perdita, ma non troviamo tracce di acqua da nessuna parte, Graziella si è sdraiata all’ombra sulla cabina, legge un libro che non deve essere molto interessante, perché ogni tanto sonnecchia. Piero invece dopo aver controllato le vele, va proprio a dormire in cabina nel suo letto.
Il pilota automatico è programmato per portarci alla Capraia.
Passo in rassegna i CD che abbiamo portato a bordo, escludo la Traviata perché essendo la nostra preferita è la più gettonata, Midnight Jazz mi piace molto: per questo l’ho portata, ma adesso mi sembra troppo legata ad altri momenti vissuti in altri luoghi. Strano, una musica ti piace, ma ti dà il suo massimo solo quando sei pronta per ascoltarla.
Vediamo cosa c’è di bello qui, ah, sì…La Turandot. Ho visto l’opera, ma le musiche, a parte le più famose, tipo “Nessun dorma” non le ricordo.

Mi trovo un posticino comodo e prima di pigiare il pulsante per ascoltarmele tranquillamente, do un’occhiata in giro, il vento è sostenuto e le vele sono belle gonfie come le ha lasciate Piero; la Capraia è già in vista, alle mie spalle la costa non si vede più. La musica si diffonde intorno a noi e la potenza delle prime note mi riporta alla mente il palcoscenico e la sontuosità dei costumi.
Il rumore del mare e del vento sparisce, la tenerezza struggente della musica di Puccini ti rapisce e ti trovi immersa in un altro mondo fatto di campanelli orientali, indovinelli, schiave, regine e pretendenti re.
Vrrr…Un rumore strano e inaspettato mi fa girare la testa da tutte le parti, vrrr…vrrr…
“Ma cos’è?  dov’è ?”.
“Il pesce Lellaaa, ha abboccato” grida Enrico e corre verso la canna per fermare il mulinello.
“Pieroo , Pierooo, il pesce…”.
Ma lui, al primo momento, non ci crede, poi quando realizza che è vero, esce dalla cabina ancora quasi carponi e prende in mano la situazione oltre alla canna:
“Ammaina, ammaina le vele, dai, questo tira come un matto!”.
Graziella è schizzata anche lei nel pozzetto e Piero ne approfitta per farsi accendere una sigaretta, sa benissimo che in questo momento nessuno glie la negherebbe anche se sta smettendo di fumare. Dopo aver passato la sigaretta, Graziella mi aiuta ad ammainare le vele e Enrico sta già preparando un raffio con un tondino recuperato nella cassetta degli attrezzi. Non vedo l’ora di aver finito con le vele per non perdermi niente, la canna era inclinata tantissimo e Piero dice che sarà un tonno di 10 – 15 kg.
Seduto sulla poltroncina un po’ recupera faticosamente il filo, un po’ lo lascia correre; dice che deve stancare il pesce, lui intanto è sudato. Noi tre lì in piedi, vicino a lui non possiamo fare altro che scrutare il mare nella speranza di vedere saltare fuori il pesciotto, la canna è sempre più incurvata. Altro che quel giorno in soggiorno! Non immaginavo che potesse piegarsi a quel modo; la lotta tra il pesce e Piero continua. Noi immortaliamo il momento con la macchina fotografica,  in realtà, quegli scatti ci servono da prova per un’altra fotografia ben più agognata. Mentre Piero ci spiega perché ogni tanto il pesce prende il sopravvento, noi facciamo congetture sulla futura preda: l’effetto che farà la foto quando gli amici la vedranno, come faremo ad ucciderla quando sarà nel pozzetto, come la cucineremo; inutile dirlo siamo euforici e tifiamo per Piero.
Graziella ed io,  prevedendo l’orrore di tutto il pozzetto insanguinato col tonno che salta da tutte le parti, siamo combattute tra il desiderio di prenderlo e la preoccupazione di quello che succederà se davvero riusciremo a caricarlo a bordo.
Enrico e Piero non hanno dubbi, gli darebbero una legnata.

È passato parecchio tempo e il pesciotto non accenna a darsi per vinto, anzi, ogni tanto dà dei tironi tremendi, tanto da provocare un taglio sul dito di Piero, che per un attimo si è permesso il lusso di distrarsi.
Pensavamo tutti che sarebbe stato molto più facile e invece pare sia una faccenda alquanto lunga.
Piero comunque si difende egregiamente, se pur con notevole fatica, continua a recuperare.
La canna improvvisamente si raddrizza e Piero, senza dire nulla, recupera con  estrema facilità.
“Cosa è successo?”.
“È ANDATO… LO STRONZO!”.
“Ma dai… non lo abbiamo nemmeno visto…”
“Sì… non lo abbiamo nemmeno visto, però sappiamo che è un tonno maschio!”.
“Perché?”.
“… Perché… ce lo ha messo nel c…”.

2

E’ passato un anno e la bisnonna è sempre più avvolta nei suoi ricordi a volte nebulosi, a volte  lucidissimi, i non mi ricordo sono aumentati esponenzialmente, ed ogni tanto chiede di chi sia figlio uno dei suoi bisnipoti che gli saltano in torno. Non riconosce il golf che indossa e… per l’ennesima volta le spieghiamo che è il nostro regalo di Natale per lei.

Speriamo che serbi il ricordo di questa giornata e che le sia di conforto in giornate più dure.

E’ passato un anno e la più grande delle nipoti festeggia oggi con noi il suo ventitreesimo compleanno, perché altrimenti dice: ” Va a finire che domani, data ufficiale, non lo festeggio più “. E’ cambiata Paola, l’ho sentita più sicura e disinvolta, la scelta di vivere da sola sta già dando i suoi frutti. E’ la prima ad andarsene, vuole riposarsi per essere in forma nei giorni successivi, quando riprenderà a lavorare.

Speriamo che il suo contratto a tempo determinato si trasformi al più presto  in un contratto a tempo indeterminato. Soprattutto alla gioventù non dovrebbe mai essere tolta la speranza.

E’ passato un anno e i nonni che girano per casa, hanno fatta esperienza: conoscono meglio i nipoti e con loro cantano, giocano e leggono storie. Conoscono meglio generi e nuore. Cercano di accontentarli, barcamenandosi con le esigenze di entrambi.

Speriamo che conservino la forza che gli occorre.

E’ passato un anno e la squadra di nipotini è sempre da ” mangiare!“, hanno imparato a parlare, a giocare insieme, si scrutano, si copiano, corrono pericolosamente tra il tavolo e il divano. Quando la piccola canta una canzone spontaneamente tutti tacciono e quella vocina incanta tutti.

Speriamo che il loro entusiasmo non si esaurisca mai.

E come l’hanno scorso suona più volte il campanello:Altri zii, altri cugini, altre nonne, tutti desiderosi di incontrarsi, salutarsi, abbracciarsi.

Speriamo che durante l’anno che verrà possano trovare il tempo di: incontrarsi, salutarsi, abbracciarsi.

E’ passato un anno e ancora manca una mamma che è di turno in ospedale. Speriamo che l’hanno prossimo si possa festeggiare insieme.

E’ passato un anno e i padroni di casa ci ospitano ancora. Speriamo per l’hanno prossimo di poterli ospitare tutti da noi.

Speriamo… speriamo in bene per tutti.








Cosa ci fa decidere di leggere un determinato libro? Il passaparola? Le classifiche? Il nome famoso dell’autore o dell’autrice? Ci affidiamo ai consigli del libraio o del bibliotecario/a? Le ipotesi sono innumerevoli. La condizione più stuzzicante è certamente assistere alla presentazione del libro.

La cornice che accoglie il pubblico, in questo caso, è la Villa Hussy, sede della  Biblioteca Civica Luino. La data il 31 ottobre 2008. Il romanzo: I ghiri sotto il tetto, di Franco Di Leo. La presentazione è a cura di Annalina Molteni.

Entriamo nel vivo del romanzo: Silvana è morta, e sono certa che non rovinerò la lettura del libro svelandovi questa notizia. L’unica notizia certa. Il resto del romanzo, stando alla presentazione è un susseguirsi di ipotesi sul perché e per come sia morta Silvana. Suicidio? Omicidio? Disgrazia? Le indagini cambiano strada più volte e il finale…

La presentazione di un romanzo ci porge su di un piatto d’argento ” La storia”, ce ne fa sentire il profumo. Il suo autore ci spiega gli ingredienti, la curatrice ne esalta le qualità. Ma… è solo leggendo il romanzo che potremmo decidere se il suo gusto  è di nostro gradimento.

Devo ammetterlo, ho iniziato la lettura con poco appetito, tutti quegli ingredienti… non mi avevano convinta. Ma una pagina dopo l’altra ho dovuto ricredermi, ho gustato questo romanzo tutto nell’arco di una serata.

Parlare di un libro, trasformarlo in un film, d’accordo, ma volete mettere il piacere di leggerlo, specialmente quando l’autore, come in questo caso, da al suo romanzo un ritmo naturale, che si sposa alla perfezione con l’ambiente in cui si svolge. Ci descrive i panorami lasciandoci la libertà di immaginarne le tonalità, i profumi. Ci racconta una storia complicata accompagnandoci con maestria da un paese all’altro, da una personalità all’altra. E strada facendo questa storia lascerà il segno nei suoi protagonisti.

E’ probabile che l’amore che nutro per  il lago Maggiore (luogo dove si svolge il romanzo) abbia accentuato le mie  favorevoli impressioni, resta comunque il fatto che il romanzo di Franco Di Leo : I ghiri sotto il tetto, è un’ esempio di come la buona scrittura possa rendere il lettore oltre che partecipe anche protagonista.

Questo è il piacere della lettura.

Altezza un metro e…tanta voglia di crescere, peso…sorvoliamo, si aggiunga un occhio strabico e si capirà perché sin da ragazza non abbia mai puntato sulla bellezza. Ora poi che sono nonna non saranno certo delle rughe a spaventarmi. Nel pieno dei miei 58 anni, mi viene chiesto, da Buzz Paradise, di testare un nuovo prodotto della RoC: RETIN – OX RIDES FILLER- GIORNO & NOTTE Un antirughe in tubetto dalle dimensioni invitanti, meno invitante il mini libretto dove leggo, molto faticosamente (anche con gli occhiali) cosa andrò a mettermi sulla faccia. Associazioni di molecole sono alla base di questa nuova crema, tralascio i termini tecnici che troverete nel link della RoC Ok Lella, mi dico, diamoci da fare e pensiamo un po’ seriamente alla tua bella faccia. Per certe cose bisogna essere costanti per cui: mattina e sera cremina antirughe. Mai viste tante rughe come in questi giorni! Massaggio con gesti decisi, come da istruzioni. Sono passati 14 giorni, troppo presto, per ottenere risultati. La Roc prevede risultati dopo 8 settimane Eppure… mi piace prendermi cura di me, sentirmi la pelle più morbida, più elastica. Anche se le promesse non venissero mantenute, sono contenta di questa esperienza.

Non ha certo bisogno di presentazioni Gian Antonio Stella , e quando nel 2005 ha pubblicato: Il maestro magro, come per  molte altre  novità non mi sono precipitata a leggerlo anche  perché mi era sfuggito che non si trattasse di politica.

Il maestro magro visto sotto questa nuova luce di romanzo mi ha intrigata e le quattro righe in prima di copertina hanno fatto il resto. Si aggiunga poi il suggerimento della rubrica radiofonica: Il bel vizio di leggere. A questo punto le aspettative che riponevo in questo romanzo erano molte e… sono state ampiamente soddisfatte. Non è a mio avviso solo un  romanzo, sono tantissimi racconti sapientemente intrecciati tra di loro con una scrittura scorrevole e suggestiva.

L’incontro  dei due  protagonisti: Osto siciliano e Ines veneta, non sono che l’inizio di una carrellata di persone che si dipanano dal sud al nord  nell’Italia del dopo guerra.

Tra gli anni  cinquanta e sessanta, si viaggia molto in treno, con valige di cartone, si mescolano non solo  odori di aglio e  pecorino, dialetti e fisionomie, ma anche  modi diversi di vivere e pensare.

Un’ umanità variegata si sposta dalle sue terre d’origine alla ricerca di speranze e  pane. Arrivano dal Veneto  gli sfollati del Polesine e  dal sud altri disperati cercano lavoro al nord.

Non sarà difficile per quelli che hanno vissuto quegli anni riconoscere nei  propri vicini di casa quegli  sfollati o i compagni di scuola meridionali e…  maestri di scuola  siciliani.

Per i giovani invece potrà essere la scoperta di un’Italia poverissima, ma piena di entusiasmo, che trova via via, fino al bum degli anni sessanta, la voglia di riscatto e di benessere.

E’ in questa cornice che il maestro  Ariosto Aliquò detto Osto, deve man mano prendere decisioni, affrontare problemi, ascoltare miserie umane e sorridere anche per situazioni inverosimili.

La sua compagna Ines è una donna forte, temprata dalle vicissitudini della vita che fin da giovane l’hanno resa vedova di guerra con un figlio da crescere. E’ anche ironica e il suo imprecare in veneto o l’apostrofare il marito con il nomignolo “Moro” la rendono simpatica.

La tenerezza del loro amore è a prova dell’ignoranza e del bigottismo altrui.

Convivono in questo romanzo oltre a camorristi e preti infingardi anche  medici ruffiani e assassini col mal di denti,  un albero di carrubo dei giardini di  Naxos e il profumo dei dollari californiani. Troviamo venditori di illusioni e un  guardiano di faro che chissà perché non dipinge mai il mare e il cielo.

Ogni capitolo è una  miniera di aneddoti, situazioni e personaggi. E… proprio uno di questi, permetterà ai racconti vari, paradossalmente veri, di diventare nel finale  un autentico romanzo.

Il più delle volte, le nostre aspettative ci tirano brutti scherzi, lasciandoci delusi e insoddisfatti, questa volta è andata bene!


Quest’anno l’orto aveva tutte le carte in regola.

In pieno sole, come non mai, da quando sono stati abbattuti cinque pini che uno affianco all’altro creavano un muro d’ombra impenetrabile. Ma prima ancora che godesse del sole primaverile, le sue prose erano state vangate e ben concimate. Vangare e concimare, due verbi semplici semplici ma…quanta fatica, nonostante siano anni che butto i sassi che trovo nel terreno ne spuntano sempre, è come se d’inverno arrivasse un folletto e ne seminasse in ogni dove e di tutte le misure, certi sassi sbilenchi che a volte si sfogliano, altri che bloccano la pala e oppongono una fiera resistenza, devi girargli in giro, fare leva e dopo averlo estratto  ti resta un bucone! A quel punto, riprendere a vangare diventa una passeggiata, qua e là scappano lombrichi e riemergono vecchie radici. All’improvviso, girando una zolla di terra, colpisce il contrasto tra il marrone della terra e il bianco di una miriade di uova di formiche. Con la punta della pala cerchi di prenderne il più possibile e le fai volare il più lontano possibile, intanto il terreno brulica di formiche che scappano da tutte le parti. Lo capisco, loro abitano lì  da più tempo, l’orto è arrivato dopo, ma in definitiva, loro,  non se ne sono mai andate!

Per concimare il massimo sarebbe “Lo sporco delle galline” come racconta il nonno al nipotino nel bellissimo film di Ermanno Olmi: “L’albero degli zoccoli”. La versione moderna è la pollina che  acquisto al consorzio. Il terreno è a posto , una bella rastrellata e si passa alla prossima prosa. Poi la semina o il bucherellare del terreno per infilarci le piccole piantine e in fine una bella annaffiata.  Quando l’orto è  ben organizzato non ti resta che attendere, scrutare cosa combinano le lumache, scacciare le formiche, spostare le coccinelle dalle azalee ai fagiolini, nella speranza che si mangino le afidi delle formiche. “E’ inutile che tu soffi sopra le verdure per farle crescere!!” Commenta ironico mio marito ” Devi aspettare”. E… ho aspettato; è passato aprile, che come previsto è stato un mese  piovoso.

Maggio: piovoso.

Giugno, luglio, agosto: PIOVOSO.

I fagiolini erano alti alti e quei quattro fiori in croce che sono apparsi  si sono trasformati in una manciata di fagiolini giusto da accontentare la nipotina. l’insalata non è mai nata, salvo una sparuta macchia di cicorino che ho coccolato e coperto dalla pioggia. I pomodori neanche parlarne, all’inizio della maturazione, apparivano già marci nella parte inferiore, ho salvato solo qualche pomodoro ciliegina che raccoglievo al volo prima che cascasse in terra. Le foglie delle zucchine erano mostruosamente grandi e verdi, le zucchine invece… piccole, avvizzite, giallastre  e per metà marce. Non proseguo nella descrizione perché mi vien male!! Aggiungo solo che le prose assumevano quotidianamente, come quotidiani erano i temporali, l’aspetto di piccole risaie, il terreno non era più in grado di assorbire acqua! Che debba cambiare hobby? dovrò darmi all’allevamento delle trote!

Gli unici a darmi soddisfazione sono stati  i cetrioli, quando li scovavo sotto le foglie addossate alla roccia erano gonfi e stranamente lunghi, una qualità che non conoscevo, ne trovavo tre o quattro al giorno. Li ho usati per le insalate miste, come antipasto tagliati a rotelline con un poco di sale, ci ho preparato una crema greca con lo yogurt, ne ho  regalati, ne ho messi  in frigo in attesa di portarli a qualche amico, ci è mancato solo che li usassi per prepararmi maschere di bellezza!! Insomma, uno sfacelo di cetrioli che ormai ci uscivano dagli occhi.

Settembre: Sono già in ritardo per  piantare: verze, cavoletti di Bruxelles, cavolfiori bianchi e verdi, ma… continua a piovere.

Ottobre: le mattinate sono tiepide, nelle ore centrali  il sole è molto  caldo e verso sera la roccia rimanda il calore immagazzinato durante il giorno. L’orto (parola grossa) quel che rimane dell’orto sembra ringalluzzirsi e qualche pomodoro finalmente matura. Io ce la metto tutta e rivango, riconcimo e  risemino: cicorino, erbette, insalata ghiaccio e spinaci.

Per scovare il cicorino appena nato bisogna bagnare il terreno che, diventando più scuro, evidenzia quel verde tipico dell’esplosione della primavera. Anche gli spinaci sono spuntati e sui loro baffetti lunghi alcuni semi sono ancora attaccati.  L ‘insalatina ghiaccio sembra una moquette verde smeraldo! e le erbette che crescono affianco  sono di un verde più scuro.

E’ in atto la rivincita dell’orto, il sole continua a splendere. Durante il giorno annaffio con acqua riposata, e la sera copro.  Le prose sono una bellezza!

E già… bisogna insistere, darsi da fare, intervenire, credere che il tuo impegno possa  cambiare o modificare qualche cosa! o… no?

Spiegano i saggi che il primo passo sia l’accettazione. Non dico solo per l’orto, penso ad altre situazioni nelle quali ci diamo un sacco da fare e forse… sarebbe meglio lascia correre, adeguarsi, non insistere, insomma accettare serenamente  la situazione. Sono una nonna e ancora non ho capito come sia meglio comportarsi.

Questa mattina, sollevando i pannelli di policarbonato alveolari alcune macchiette di muffa punteggiavano il terreno e le foglie più grandi dell’insalata ghiaccio presentavano delle ombreggiature scure.

La rivincita dell’orto è durata poco, ma… domani, 27 ottobre mangeremo: uova sode con insalatina dell’orto!