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A casa della mia amica Stella, il libro è appoggiato sui gradini che portano alla camera da letto, storgo il collo per leggere il titolo: “L’eleganza del riccio”, di Muriel Barbery. Stella mi assicura che è un libro bellissimo. Me lo avrebbe consigliato se io non l’avessi informata: ” Me lo ha già passato  mia nuora”. Lei  ne è rimasta affascinata, lo ha letto in tre sere. A quanto pare quello che c’è scritto in  quarta di copertina continua ancora: il passaparola funziona e non è un caso che questo romanzo  abbia vinto il Premio dei Librai assegnato dalle librerie.

Confermo, il libro è bellissimo! Di una bellezza particolare, autentica e rivelatrice. Muriel Barbery ci svela la verità su due personaggi che sembrano molti diversi l’una dall’altra: Renèe la portinaia e Paloma l’adolescente che vivono nello stesso  palazzo, abitato da famiglie dell’alta borghesia. Ognuna delle due protagoniste, per motivi diversi, nasconde la propria natura. La vicenda si svolge a Parigi, ma una storia così poteva essere ambientata dovunque perché ovunque il seme  dell’infelicità e della solitudine attecchisce dall’indifferenza, dalla falsità e dai pregiudizi altrui. I due personaggi, s’incontreranno grazie ad una terza persona che intuisce il segreto della  portinaia.

Il bello di questo romanzo sono i pensieri di una ragazzina che scrive un diario in previsione di un suo imminente suicidio. Osserva gli adulti, gli fa la radiografia e poi emette il suo  verdetto! Strada facendo ci mostra attraverso la sua spietata ma esatta analisi l’ipocrisia del mondo. Sconcerta a volte la lucidità di questa dodicenne, anche se l’autrice ci informa che Paloma è particolarmente intelligente.

Il bello di questo romanzo sono i pensieri di una colta  portinaia autodidatta  che si costringe ad apparire sciatta, sciocca ed ignorante agli occhi dell’alta borghesia, che  solo così si aspettano che sia. Ed è un vero peccato non aver potuto godere appieno delle sottigliezze di una portinaia veramente erudita. Troppo erudita per me! (Vedrò di rimediare). E’ comunque un vero piacere trovare in queste pagine l’emozioni che può darti l’ascolto di un coro o lo sguardo su di un quadro. La bellezza dell’arte è descritta con capacità di sintesi, eleganza e delicatezza.

Il romanzo scorre veloce, i vari personaggi si alternano sulla scena, a volte scompaiono come Jean Arthens, per poi rientrare e farci scoprire che la vita può rinascere. Il finale è un capolavoro e la nostra adolescente………

Muriel Barbery con questo romanzo da la scossa all’ipocrisia ed esalta la semplicità della bellezza. A volte… con una semplice camelia


Sulle tracce di Nives non è un romanzo, è una notte. Una notte  particolare in cui i protagonisti, Erri  e Nives,  parlano delle loro avventure, delle loro esperienze in montagna e non solo. Sono discorsi, confidenze e considerazioni  che tu lettore ascolti in silenzio per non disturbarli, per non interrompere quell’atmosfera che si viene a creare quando due persone si capiscono al volo.

Erri de Luca non rinuncia a volte a stupire la sua ascoltatrice e noi lettori. Ci  regala immagini di tuoni che colpiscono la montagna appositamente incipriata di polvere di metallo, proprio per attirarli.

Anche Nives Meroi ha i suoi assi nelle maniche, ne ha di cose da raccontare una che ha scalato dieci dei quattordici giganti che superano gli ottomila metri; senza bombole d’ossigeno e portatori d’alta quota”

Erri de Luca scrive per lei: è sulla sua traccia, e lo fa con grazia, facendone emergere tutta la forza e la schiettezza. In copertina è emblematico l’inizio della frase: “E’ una tigre di alta montagna Nives Meroi, italiana, tra le pochissime donne al mondo…”

E’ una notte punteggiato di stelle, Il libro di  Erri de Luca , ognuna delle quali brilla di luce propria, brevi titoli e poche pagine per parlare di portatori oppure di Salmi, di vento e di freddo  o di fuoco, di luce seminata e lanciatori di coltelli. C’è lo sforzo per arrivare sulle cime e l’estrema attenzione per il ritorno. Tutto è sempre molto ben descritto.

Se per: “Il contrario di uno”, ho avuto difficoltà a seguire Erri devo ammettere  che questa volta ho seguito le tracce con infinito piacere!


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E’ un tenore con una potenza di voce eccezionale, ma non è solo potenza, è armonia e delicatezza; sono certa che presto il suo nome lo conosceranno in molti.

Arriva dalla Corea con una Laurea quinquennale in Canto Lirico e materie musicali Korean National Universiti of Arts, si è poi trasferito in Italia ed ha continuato a studiare. Non vi elenco i nomi dei maestri con cui si è diplomato e le scuole che ha frequentato, ma già dal suo primo debutto in Italia al Teatro Sociale di Castiglione delle Stiviere, la sua interpretazione  di Alfredo nella Traviata ha fatto capire al pubblico e alla critica le sue qualità artistiche. Ha vinto concorsi, premi e… ieri sera, all‘Auditorium di Maccagno, il tenore Kang Hoon (primo premio, selezione lirico e lied al Concorso internazionale “Città di Maccagno” 2007) accompagnato al pianoforte dal Maestro Sem Cerritelli  ha deliziato il pubblico con un repertorio che è ha spaziato dal: Agnus Dei di Bizet a: La donna è mobile di Verdi.

Durante la prima esecuzione: Domini Deus di Rossini, lo ammetto mi sono lasciata distrarre, non ho potuto fare a meno di ammirare l’eleganza di Kang Hoon, la postura impeccabile, la mimica ben misurata. Gli applausi al termine del primo brano non sono stati scroscianti, così mi sono voltata ad osservare la platea che non era pienissima a causa dei soliti nubifragi che in questi ultimi mesi accompagnano le serate dei maccagnesi. Ma Kang Hoon… brano dopo brano ha conquistato il pubblico che in un crescente entusiasmante lo ha applaudito a lungo: “Bravo, bravo” si sentiva  gridare dalle prime file e dalle ultime. Ora L’auditorium sembrava gremito.

Non sono un’esperta di musica lirica, ma l’ascolto spesso, soprattuto i Grandi, così quando faccio un paragone  con altri che sento dal vivo non reggono il confronto (il mio orecchio è abituato troppo bene). Ma ieri sera non è stato così, tolto il momento iniziale di distrazione,  ho chiuso gli occhi e ho ascoltato: senza fare distinzione fra pianista e cantante, senza pensare a come deve essere stato difficile per Hoon affrontare questo pubblico che tutto si aspettava furchè un coreano a Maccagno, senza prendere appunti pensando che avrei scritto di questo tenore. Ho chiuso gli occhi e mi sono lasciata emozionare, un’ora e mezza in cui la magia della musica mi ha trasportata in un altro mondo, dove romanze e drammi, potenza e delicatezza convivono armoniosamente e ci fanno  sognare.

Bravo Kang Hoon, ti auguro tantissimo successo e speriamo di risentirti presto.


Il libro di Erri De Luca: Il contrario di uno, contiene una poesia e venti novelle, la prima è intitolata: Vento in faccia, è una storia forte, con verità sconosciute ai più, quattro pagine intense in cui drammaticamente  senti tutto e vedi tutto.

Non sono riuscita  a passare alla seconda novella, ero troppo angosciata. Ho così iniziato a leggere: Favole al telefono, di Gianni Rodari, sono favole brevissime di una limpidezza e solarità assoluta. Mi sembrava, leggendole, di alleggerire il carico della precedente lettura, così alternavo i due autori: una novella di De Luca e qualche favola di Rodari che con le sue  centotrentasei favole per bambini si è pian piano inserito nelle novelle di De Luca, e così è  successo che alle cariche della polizia si contrapponesse Giovannino Perdigiorno che  per essere punito deve schiaffeggiare la guardia che lo multa. Si legge: Certo che è  ingiusto, certo che è terribile – disse la guardia- La cosa è tanto odiosa che la gente, per non essere costretta a schiaffeggiare dei poveretti senza colpa, si guarda bene dal fare niente contro la legge.
De Luca ricorda spesso la sua infanzia, con lucidità e senso critico, in: Il pollice arlecchino, a proposito di un’attrezzatura per dipingere che suo padre si  regala per Natale scrive: Era stata una spesa robusta e se ne vergognava per ciò era burbero: “Non si tocca,” disse a noi bambini, aggiungendo un altro articolo all’ordine delle cose proibite. E… Rodari inventa il pulcino cosmico che viene in missione segreta sulla terra e ad un genitore spiega chiaro e tondo che non educa bene i suoi figli. Ancora infanzia quando De Luca scrive del profumo di brioches e altri gas, dove il gas rappresenta la fatica; i grandi che lui osserva lavorando con loro ma in disparte. C’è del rammarico quando scrive: Gli uomini odoravano di esca e di forno. Sentivo in quell’età di essere parte di una comune virilità del mondo, muta, profumata. Da adulto non l’ho ritrovata negli uomini.

Sul titolo del libro: Il contrario di uno, molte frasi ed argomenti ci danzano intorno, come ad esempio nel: Il pilastro di Rozes si legge:”Siamo in due: in parete è molto più del doppio di uno”. In quarta di copertina:Due non è il doppio ma il contrario di uno, della sua solitudine. Due è alleanza filo doppio che non è spezzato. La  solitudine è  presente anche quando non se ne parla, la forza e la volontà di scacciarla anche.

La dedica del libro è: Alle madri, perché  essere in due comincia da loro e, la poesia che segue: Mamm’Emilia è da leggere! impossibile parlarne senza rovinarla.

I bambini che lessero i primi racconti umoristici di Rodari  nel ’47 e nel 50 li lessero su riviste politiche dei genitori, così Rodari  disse che: Era quasi obbligatorio trattarli diversamente da come prescrivevano le regole della letteratura per l’infanzia, parlare con loro delle cose di ogni giorno, del disoccupato, dei morti di Modena, del mondo vero…

C’è una vecchia zia Ada, nelle favole di  Rodari che finisce al ricovero, che è lontana dai suoi figli e criticata dalle sue nuove vicine, ma lei riesce ancora a dare agli altri e questo la fa stare bene. Ci sono tantissimi personaggi strani e storie impossibili che vi assicuro è stata una delizia immaginarseli leggendo.

Per Erri De Luca è stato molto più complicato. La matassa dei suoi pensieri ho dovuto dipanarla lentamente, per evitare di ingarbugliarmi, mi sono dovuta fermare parecchie volte per disfare nodi che non mi facevano andare avanti, ho dovuto tornare indietro per riprendere bene il filo, ma procedendo con attenzione ho apprezzato la sua sensibilità e sincerità d’animo.

Due autori: Erri De Luca e Gianni Rodari, che mi sento di ringraziare per la loro sincerità, qualità molto ricercata su questo mondo

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Marina Terragni è stata brava, nel suo libro: La scomparsa delle donne, c’ è tutta la sua professionalità e competenza, tutta l’esperienza di una vita vissuta intensamente. Si sente, leggendo il suo libro che ci ha ragionato sopra, facendo partecipe il lettore e le lettrici dei suoi pensieri, delle intuizioni, delle realtà e delle possibilità. E’ una lettura accorata e sincera nella quale mi sono rivista diciottenne, travolta dal 68, ventitreenne, mamma e terribilmente sola. Ho letto pensieri che credevo fossero solo miei e trovarli stampati a distanza di tanti anni mi ha fatto bene. Ho ritrovato i libri della filosofa Luisa Muraro e… mi sono ricordata quanto fosse stato difficile per me  leggere : Il Dio delle donne, avevo dovuto leggerlo due volte e sentivo rileggendolo che era giuso che mi sforzassi per capire, era giusto seguire quei pensieri. Si legge di Virginia Woolf che in: Una stanza tutta per se, parla dell’emancipazione femminile.

E’ come se per tutta la sua vita la Terragni avesse pensato a questo libro, come se avesse osservato passo passo il cambiamento della donna: in casa, sul lavoro, nella società, e in particolare  nei rapporti con l’uomo. Ne ha  preso nota, discusso al Circolo della Rosa, si è confrontata con altre donne, ha ascoltato, ragionato, ha vissuto  esperienze personali che le hanno fatto toccare con mano i possibili cambiamenti. Perché si può cambiare, bisogna cambiare altrimenti la vede brutta la Terragni, magari solo provocatoriamente ma la scomparsa della donna, della sua differenza femminile è al capolinea.

Scrive molto anche degli uomini: delle violenze perpetrate sulle donne, delle sue nuove paure, della voglia di cambiamento che sentono anche loro.

Non vi parlerò di tutti gli argomenti che sono trattati e approfonditi in questo libro, perché è meglio che lo scopriate da sole, o da soli.  Il risultato è  un’ analisi imparziale, e soprattutto Marina Terragni ha lasciata aperta la via alla speranza di una proficua collaborazione fra uomo e donna. Per un mondo migliore.

Mi piace come scrive Gianrico Carofiglio e mi piace soprattutto il suo personaggio: l’avvocato Guido Guerrieri protagonista del legal thriller italiano. Ti piacerebbe prender un aperitivo con lui per dirgli che lo capisci… che anche a te capita di sentirti come lui e che anche a te ti hanno lasciata, ti hanno minacciata, ti hanno picchiata, magari solo da un compagno di classe quando eri piccola ma il ricordo è tanto grande che, leggendo le sue avventure ti ci ritrovi e sei contenta quando lui ce la fa, vince e tira dritto.

I romanzi di Gianrico Carofiglio : “Testimone inconsapevole” del 2002 – “Ad occhi chiusi” del 2003 -“Ragionevoli dubbi” del 2006 – si aggiunge nel 2005 il Premio Bancarella con “Il passato è una terra straniera”. Per ognuno di questi romanzi si prospettano scenari e personaggi diversi fra loro, ma i rapporti umani, le riflessioni, i dubbi e le paure sono sempre presenti. In ” Ragionevoli dubbi ” per esempio il nostro Carofiglio fa dire a Guerrini: ” Avevo voglia di scappare via, adesso. Via da quella inattesa fragilità, da quella disperazione, da quel senso di sconfitta”.

Si sfoga l’avvocato Guerrini prendendo a pugni il sacco. Si libera dalla depressione, si innamora, si ritrova solo, mangia bene e beve meglio ma… altre volte no! e via così fino all’incontro con il suo vecchio amico Tancredi che lo aiuta in un’indagine. Fino a quando si rende conto di quanto la sua segretaria sia preoccupata per lui. Fino a quando decide che non è poi così importante una certa cosa… Un personaggio che si permette di farti leggere i suoi pensieri e resti stupito, perlomeno la prima volta, quando alla fine del discorso si legge: “Ma non dissi così”. Tutti noi vorremmo dire…. ma lo pensiamo soltanto, lui invece, l’Avvocato Guerrini se lo può permettere. Beato lui che può

Le motivazioni sono forti e quello che hai visto non riesci a cancellarlo: ti ricordi la penombra, la serata tiepida, la gente che passa frettolosa e quel pensiero:” Ma cosa sta facendo?”. La necessità di scrivere sorge spontanea, ma trovare le parole giuste per raccontarlo è stato difficile. Come tutte le prove difficili, conclusa la stesura del racconto:” Il biglietto di Lucia”, mi sono sentita serena. Racconto tratto dal libro: “Strettamente Personale” IL BIGLIETTO DI LUCIA Preambolo Un ragazzo accovacciato nella penombra di un androne, forse si stava drogando. Il peggio è stato voler credere che così non fosse. Comincia tutto come una molla che va caricandosi: immagine su immagine, parola con parola, pensiero dopo pensiero. Quello che succede sembra che non ti riguardi, non ti viene nemmeno in mente che possa toccarti personalmente. Poi, quando la molla è a fine corsa e scatta, ti colpisce con tutta la sua forza, ti lacera, ti fa male, ti fa piangere e soprattutto ti fa riflettere. E a quel punto non sei ancora in pace per inventare, per raccontare, per scrivere, per dare corpo. Ci vorrà del tempo per elaborare tutta la tristezza, molto tempo, perché… la Vita lo merita. Era penoso ritrovare quel biglietto disegnato a mano: un gattino piegato a squadra che si scappellava in ringraziamenti e sorrisi. Le ricordava quello che avrebbe potuto fare e che non aveva fatto. Più di una volta aveva pensato di buttarlo ma le pareva brutto, visto che quel biglietto di ringraziamento era l’ unico ricordo che le fosse rimasto di Lucia. Buttandolo non si sarebbe certo dimenticata di lei ma… non lo fece, lo ripiegò, l’infilò nella busta bianca e lo rimise nel cassetto, dove, non si sa fra quanto tempo, le sarebbe ricapitato nelle mani. Come a riprendere un pezzo di vita passata che si era interrotta, troncando per sempre un possibile futuro per Lucia. Era un piccolo pezzo di vita, lungo solo ventitré anni. E lei, Carla, c’ era entrata in primavera, per caso, due anni prima. “Ecco, questo è il laboratorio, venga due volte alla settimana per tre ore e veda di pulire quello che può senza spostare niente, di là c’è l’ufficio e il bagno, anche lì non tocchi niente!”. Parlava sul serio quel signore o stava scherzando? Come avrebbe potuto pulire un posto del genere senza spostare niente? Lo scantinato è fresco, l’odore della colla prevarica su quello dei colori a tempera che riempiono per metà un tavolo, le latte sono quasi tutte aperte e dai bordi sbrodolanti si capisce che colore contengono. Il piano del tavolo, montato su due cavalletti è ricoperto di fogli di carta da pacchi, ma il suo colore originale è solo un ricordo, un variopinto guazzabuglio di tinte fa da tovaglia a sagome in espanso di frutta e verdura a cui mancano ancora le sfumature fondamentali per farle sembrare vere; appoggiati su piattini, lì vicino, pennellesse e pennelli di varie misure. Altri tavoli, altri lavori in corso: letterine e numeri trasferibili per comporre un cartello pubblicitario. Cartoncini, lanzette, righe e squadre per creare dime. Sul tecnigrafo marchi da ingrandire, sulla parete di truciolare c’è agganciato un po’ di tutto, calendario di donna nuda compreso. Le matite e le gomme sono onnipresenti, non mancano forbici e martelletti, graffettatrici, puntine e… sigarette e mozziconi dappertutto, accese, spente, spiccicate per terra, ammontonate nei posaceneri o appoggiate sui bordi dei tavoli, che già riportavano i segni delle bruciature precedenti. Carla osserva incredula, con occhi sgranati, e solo al termine di quella carrellata veloce si domanda di che colore potesse essere originariamente il pavimento. Sacconi neri della spazzatura erano agganciati alle manopole dei caloriferi a ridosso delle colonne portanti situate al centro dell’ampio locale. Tre enormi vetrate illuminano: il laboratorio vetrinistico, il caos che lo sovrasta, la vitalità che lo anima e le persone che ne sono gli artefici. Fra tanti ragazzi e ragazzotti vocianti, una fanciulla silenziosa è china sul tavolo da disegno, sta tracciando su di un foglio il viso di una bambina con i codini. Il tratto è leggero ma senza incertezze, la mano procede disinvolta lasciando sul foglio un viso sbarazzino con tanto di lentiggini. Una fanciulla silenziosa, così l’aveva subito qualificata Carla ma per le due ore successive i suoi pensieri furono concentrati su quello strano laboratorio da pulire. “Senza spostare niente!”. Solo nell’intervallo di mezzogiorno, mentre gli altri uscivano per prendersi un panino al bar, Lucia si era presentata e le aveva chiesto di fermarsi con lei a mangiare mentre stendeva un canovaccio sul tavolo di legno e ci appoggiava: la frutta, lo yogurt e un cucchiaino. “Ho un panino in borsetta”. Rispose Carla e si sedette accanto a lei sbirciando meglio il volto della bimba con i codini. “È bello, sei molto brava”. “Se ti piace puoi tenerlo, è solo un bozzetto”. “Sì lo prendo, ti ringrazio”. Avrebbe ripensato un’infinità di volte a quel primo incontro con Lucia. A tutti quei messaggi che già c’erano e che lei non aveva saputo cogliere. Il corpo esile, la carnagione pallida, il viso triste, un tentativo di approccio con una estranea, una richiesta di compagnia. Ricordava anche la sua gentilezza nel farla sentire a suo agio, anche se in fin dei conti lei era solo la ragazza delle pulizie. Forse si era fatta distrarre da questo, forse si sentiva lusingata e fin da quel momento più che pensare a Lucia aveva pensato a se stessa. Per un anno, il martedì e il venerdì, Carla si immergeva a capofitto in quel laboratorio. Per star dietro a quel caos, aveva preso lo stesso ritmo delle persone che ci lavoravano, considerava che fosse l’unico modo possibile. Loro finivano di colorare e lei ritirava subito i pennelli per metterli a bagno, chiudeva le latte di colore, cambiava la carta sui tavoli e quando aveva finito, in un altro tavolo si erano ammucchiati sfridi di carta e cartoncini. Se il materiale sotto pressa era pronto e lo infilavano negli scatoloni, lei con una spatola, alla quale aveva applicato un manico di scopa, staccava dal pavimento le chiazze di colla e di colore. Due tavoli venivano accoppiati per un lavoro grande… lei si presentava con scopa e paletta dove prima non poteva arrivare. Aveva preso in parola quello che le avevano raccomandato il primo giorno “Pulisca quello che può senza spostare niente”. Non eseguiva mai nell’arco della giornata un lavoro uguale a quello precedente come se la frenesia della creatività di quel luogo avesse contagiato anche lei. Con i vetrinisti parlava poco, ma si intendevano egualmente: lei non li disturbava mentre lavoravano e loro non la infastidivano. Solo Lucia la faceva partecipe dei lavori che stava portando avanti: nascevano, crescevano e poi sparivano in fiera o in qualche negozio. Carla sapeva di non essere nessuno là dentro, ma quando “un’opera d’ingegno” come esclamavano scherzando i vetrinisti, varcava la soglia del laboratorio, lei si sentiva orgogliosa di lavorare lì. Le piaceva anche ascoltare Lucia, quando, nei suoi momenti migliori, le raccontava dei capolavori artistici di cui è ricca l’Italia, come se oltrepassata la porta di sesamo lei le illustrasse le meraviglie di quei tesori. I mosaici di Ravenna, gli affreschi nelle chiese, le sculture, i cieli di Giotto, i quadri del Mantegna. Le descrizioni di Lucia si trasformavano in immagini, ma i nomi di quegli autori famosi spesso si confondevano nella mente di Carla. Così quando in laboratorio capitava che rimanessero sole e il silenzio fosse assordante Carla, avendo capito che l’argomento arte riusciva ad animare Lucia, cominciava a domandare di questo o di quell’altro pittore. Dire che loro due, dopo un anno fossero diventate amiche era forse troppo. Anche se Lucia le aveva raccontato molto di sé, era come se a Carla mancassero i capitoli più importanti della sua vita. Sapeva che aveva un fratello minore, con il quale aveva condiviso la perdita della madre quando ancora erano piccoli, sapeva del padre professore universitario sempre impegnato, della nonna materna che li aveva allevati, del liceo artistico che lei aveva abbandonato, dell’ultimo ragazzo che le faceva un filo spietato, conosceva addirittura gli esiti degli ultimi esami del sangue che aveva dovuto controllare per una brutta epatite che si era presa. Nonostante Carla avesse capito che molto di Lucia le fosse ancora sconosciuto provava per lei una simpatia mista a tenerezza. Le piaceva starle vicino, sentire il suo profumo di borotalco, osservare quel viso acqua e sapone, apprezzava il suo modo semplice di vestire, ma quello che proprio la faceva impazzire erano i suoi sorrisi: lievi, appena accennati, i muscoli del viso si modellavano sorretti dalle labbra che si schiudevano in un breve attimo. Sorrisi rari, e proprio per questo Carla aveva capito quanto fossero importanti. Sapevano di avere la stessa età ma solo a maggio, scoprirono di compiere gli anni lo stesso mese, e per Lucia bisognava aspettare fino al venti. “Festeggiamo insieme! Io penserò ad un regalo per te molto artistico! E tu naturalmente dovrai pagarmi da bere”. “Ok, disse Lucia, io pago da bere e sarai tu, questa volta, a pensare all’arte!”. “Artistico… un regalo artistico, ma cose le regalo, un Picasso? Artistico… Mia zia dice che sono un’artista nel preparare i ravioli con la ricotta e gli spinaci! E io le preparo i ravioli con la ricotta e gli spinaci. Vediamo un po’ che faccia farà. Speriamo che sorrida!”. Il 20 maggio. “Senti Lucia, io mi sono spremuta al massimo e l’unica cosa di artistico che ho saputo creare per te, la troverai questa sera a casa mia, alle otto”. “Non potevi portarmela qui?”. “No! Si raffreddano”. “Si raffreddano?”. “Sì, si raffreddano!”. Davanti al suo capolavoro non solo sorrise, a momenti si metteva a piangere, perché diceva che l’ultima volta che aveva mangiato i ravioli fatti in casa, glieli aveva preparati la sua nonna, che adesso è tornata a vivere nelle Marche. Fu una bella serata, il vino dolce che la festeggiata portò contribuì notevolmente a rallegrare gli animi e le guance di Lucia divennero lievemente rosse. La settimana successiva, inaspettatamente, nella casella della posta, Carla trovò un biglietto indirizzato a lei, aprì la busta mentre saliva le scale e rimase piacevolmente sorpresa quando vide disegnato all’interno un gattino piegato a squadra che si scappellava in sorrisi: nel fumetto, sopra la sua testa, c’era scritto un numero infinito di grazie, grazie, grazie. Carla gongolava, la cena per festeggiare il loro compleanno era ben riuscita ma non si aspettava certo un ringraziamento scritto. Il martedì successivo, in laboratorio si abbracciarono e la loro amicizia sembrò essere più profonda. A settembre Lucia lasciò lo studio vetrinistico, voleva riprendere le scuole e Carla fu felice per lei anche se il laboratorio adesso non era più lo stesso. Continuarono a sentirsi per telefono ma… sempre più di rado, fino a perdersi di vista completamente. Una gita organizzata a Mantova per febbraio fece rinascere il desiderio a Carla di risentire la sua vecchia amica. In laboratorio le aveva parlato tanto del Mantegna, del castello e di altre meraviglie che Mantova poteva offrire. Chissà se Lucia sarebbe venuta con lei a Mantova? Provò a telefonare. Rispose il padre: “Lucia non c’è, è nelle Marche dalla nonna, lei è una sua amica?”. Gli aveva spiegato chi fosse e il motivo della telefonata, lui l’aveva riconosciuta: Lucia aveva parlato di lei in casa. Ci fu un attimo di silenzio, poi lui riprese a parlare. L’informò che Lucia non stava troppo bene e quando sarebbe tornata l’avrebbe fatta chiamare, aggiunse anche: “Mi raccomando, le stia vicina”. “Sì, senz’altro”, aveva risposto lei. Non stava troppo bene? Non è mai stata troppo bene! Doveva starle vicina, lei… ma se non si vedevano da sei mesi! Quella ragazza ha sempre avuto qualche grana ma lei non era mai arrivata a capire di cosa si trattasse. Passò febbraio, marzo, aprile ed arrivò maggio, in laboratorio c’era il solito trambusto, merce che rientrava, lavori che uscivano, chi partiva per Genova con un camion di roba, chi rientrava dalla fiera di Milano. Le squadre si incrociano e si scambiano notizie e novità. Raccontato fra un discorso e l’altro, Carla isola quella che doveva essere una normale notizia di cronaca: “Dì, lo sapete di quella tizia che lavorava qui? L’hanno trovata morta ieri nel bagno di casa sua”. “Ma chi, quella drogata?”. “Sì, come si chiamava… Lucia”. Quelle parole le fecero l’effetto di un grosso pugno nello stomaco, il dolore fu così intenso che dovette sedersi. Stupida, stupida che non era stata altro, possibile che non ci fosse arrivata da sola, possibile che non si fosse accorta. Come aveva potuto essere così ingenua. Stupida, stupida, stupida, si ripeteva, e cominciò a piangere a dirotto. “Ma cos’hai? Perché piangi, non lo sapevi che quella si faceva?”. “Cretino, non chiamarla Quella, voi non sapete niente di chi era Lucia, non sapete niente di come fosse sensibile, non sapete un cavolo di niente voialtri”. “E già, sa tutto lei, ma se non sapevi nemmeno che si drogasse”. Il pianto e i singhiozzi la fecero tacere ma i rimorsi le gridavano dentro. Perché non hai più telefonato, ti aveva ricordato suo padre che non stava bene, ti aveva chiesto di starle vicino, quanto tempo hai lasciato passare senza interessarti? Siamo a maggio, e il suo compleanno? Te lo sei dimenticato? L’hanno trovata morta nel bagno, con una siringa nel braccio, magari le bastava che qualcuno si ricordasse del suo compleanno e invece era sola in casa quel giorno. Adesso Carla non poteva fare più niente, niente di niente. Lucia non c’era più, erano spariti i suoi gesti delicati, i suoi abiti semplici e il profumo di borotalco era svanito con il suo dolcissimo sorriso. Non l’avrebbe mai più rivista. Ritrovava invece, ogni tanto, nel cassetto della biancheria la busta bianca contenente il biglietto disegnato a mano da Lucia. Nel fumetto, il gatto piegato a squadra ripeteva un’ infinità di: Grazie, grazie, grazie, grazie…

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30° ANNIVERSARIO PER LA SCUOLA MUSICALE DI MACCAGNO


La banda è allegria, festa, commemorazione, aggregazione e musica per tutti. Nelle loro divise impeccabili, con i loro strumenti lucidi e gli spartiti, i musicanti suonano camminando per le città, i cittadini seguono beandosi dei ritmi e di quell’atmosfera gioiosa. I bambini non disturbano se piangono e anche le voci degli adulti che chiacchierano vengono inghiottite dalla forza della musica. E’ stato così anche a Maccagno, sabato 7 giugno alle ore 19,30. Questa volta però la festa era tutta per la Scuola Musicale di Maccagno che celebrava il 30° anniversario di rifondazione. Rifondazione perché la banda in Maccagno esisteva già dal 1824, poi per vari motivi cessò la sua attività che venne ripresa appunto nel 1978. Fautore della rinascita il maestro Torrigiotti che dopo 30 anni è ancora alla direzione della formazione bandistica. Per l’occasione è stato invitato il Corpo Musicale S. Cecilia Germignaga e il Corpo Musicale Rasa di Varese, due bande con ben 200 anni di storia per la prima e 100 per la seconda. Ho avuto l’impressione che la nostra banda di Maccagno con i sui 30 anni di attività fosse una bambina a confronto delle altre due, ma… una bambina prodigio. Dopo la sfilata per le vie del paese, con grande godimento dei maccagnesi, le celebrazioni sono proseguite alle ore 21.00, presso il nuovo Auditorium “Città di Maccagno” dedicato a Bruno Compagnoni.

Dopo il saluto del presidente Antonio Cisterna che per l’occasione era molto emozionato, dopo il discorso appassionato del sindaco Fabio Passera, dopo che altre autorità si sono alternate sul palco La banda S. Cecilia Germignaga aspettava in bell’ordine di cominciare a suonare. I discorsi sono stati brevi ed è stato lasciato quasi subito il posto alla musica. E che musica! Il numeroso pubblico che era presente in sala ha subito capito il livello della serata. Sotto la direzione del maestro Domenico Campagnani la banda ha eseguito una marcia dal titolo: Lago Maggiore, e vi assicuro è stato fantastico. Il pubblico entusiasta ha applaudito lungamente. Dopo il Corpo musicale S. Cecilia Germignaga anche la banda di Varese ha esordito con una vivace marcia e il maestro Mario Splendori ha poi diretto altri brani dove clarinetti, trombe e tromboni hanno rievocato musiche da film come: Giù la testa, di Enio Morricone. La scaletta del programma e le spiegazioni dei vari pezzi, con cenni storici , mano mano che dovevano essere eseguiti sono stati diligentemente letti da Paola Perrone che ci ha parlato anche del vissuto degli autori. Al termine delle sue esecuzioni, quando il Corpo Musicale Rasa Varese ha finito di ricevere le ovazioni del pubblico ha lasciato il palco alla nostra banda di Maccagno.

“Dirige il maestro Torrigiotti” ha annunciato Paola, ma… il maestro non poteva dirigere, il maestro doveva parlare, doveva ricordare e… “forse faccio male” ha detto “ma voglio fare i nomi di tutti coloro che non ci sono più e mi hanno accompagnato ed aiutato in questa impresa, poi, senza enfasi ma con voce ferma ha elencato i suoi amici, le sue amiche e… il pubblico che li conosceva tutti ha applaudito calorosamente. Il maestro ha ringraziato con un profondo inchino e dalla magia del ricordo siamo passati alla magia della musica.

Ancora una marcia: “La luna sul lago” e i nostri musicanti sono stati bravissimi, hanno fatto agitare tutti sulle poltrone e poi ancora musica, musica. Per tutta la serata pochi sono riusciti a non tenere fermi i piedi per battere il tempo, nei momenti clou un forte fremito percorreva il corpo: la cassa toracica vibrava e il formicolio della pelle dalle braccia passava alla punta delle dita, dove non trovando uscita ritornava al corpo elettrizzandolo.

Al termine lunghi applausi e urla. Non è facile raccontare la musica, non è facile descrivere le emozioni che ne scaturiscono.La musica come tutte le altre forme artistiche o opere d’ingegno ha semplicemente bisogno di attenzione, ha semplicemente desiderio di accoglienza, quello che ci succede quando osserviamo un quadro, una scultura, quando ascoltiamo musica o leggiamo una poesia o un romanzo sono sensazioni personali che ci fanno bene, ci arricchiscono, ci portano un passo più in là, dove ci si sente meglio, dove anche l’euforia convive con la pace , dove la semplicità la fa da padrona e non ha bisogno di imbrogli per piacere e farti piacere.

Ma torniamo alla serata che prevede le premiazioni. Di nuovo il sindaco, di nuovo le autorità e fiori e targhe sono stati consegnati a chi di dovere. E per concludere: gran finale con tutte e tre le bande sul palco (non proprio tutti, perché non ci stavano!) che hanno eseguito la marcia dal titolo: Monviso, con grande godimento di tutti noi spettatori.

Sicuramente non previsto dalla scaletta la partenza spontanea delle note: Tanti auguri a te, tanti auguri per te, i musicanti hanno recuperato al volo i loro strumenti e in un disordine che è andato ricomponendosi mano mano, si sono divertiti, e dai loro sorrisi si capiva il piacere della musica insieme, si capiva la giocosità improvvisata. Spontaneità che avevo notato anche quando il direttore Domenico Campagnani della banda di Germignaga si è tolto la giacca ed è entrato nel gruppo della banda di Varese per suonare la tromba. Che bella cosa la spontaneità, che bella cosa l’affiatamento. Ma ha giustamente ricordato il Sindaco Fabio Passera che per raggiungere gli obbiettivi ci vuole anche impegno e sacrificio, e la Scuola Musicale di Maccagno ne è un esempio.

Invece, Alexander McCall Smith, è un maschio nato nello Zimbabwe, è professore di medicina legale all’Università di Edimburgo; scrive opere specialistiche ed è vicepresidente della commissione inglese per la genetica. Queste ed altre informazioni si leggono sulla quarta di copertina dei suoi romanzi, si perché Alexander McCall Smith, non pubblica solo opere impegnative ma anche piacevolissimi romanzi.

Ho letto per primo:”Il tè è sempre una soluzione” poi “Un peana per le zebre“, quando Raffaella me li ha prestati mi ha detto:”Vedrai sono carini”.

In seguito ho acquistato in libreria , sempre dello stesso autore: “Morale e belle ragazze” e “Le lacrime della giraffa” che ho finito di leggere ieri sera. Insomma ne ho fatta una scorpacciata! e non averli letti nella giusta sequenza non ha affatto inciso sul piacere della lettura.

Nei romanzi di Alexander McCall Smith si respira l’Africa, si ascolta l’Africa, si osserva con lui il sorgere del sole, quando scrive:”Il sole, una grande palla rossa, per un attimo restò appesa alla linea dell’orizzonte poi si liberò e si gonfiò veleggiando su tutta l’Africa…Ci parla della politica del Botswana, e chi mai ce ne aveva parlato prima? Racconta della sua capitale: Gaborone, di altri paesi dai nomi per noi sconosciuti: Molepolole, Lobatse, Mochudi con tutti i personaggi che li animano e in più: le loro amiche, sorelle, zii, cugini di primo di secondo e di terzo grado, anche loro con nomi dal suono stranissimo per noi, ma… la loro natura non è differente dalla nostra, lo sa bene Alexander McCall Smith quando fa esprimere questo concetto alla signora Precious Romotswe, fondatrice della Ladies’ DetectivAgency N: 1, protagonista dei romanzi, altri personaggi le girano attorno fedeli: la sua segretaria che diventerà… Il fidanzato o… marito? con i due lavativi apprendisti meccanici, la direttrice dell’orfanotrofio con i suoi bambini e con gli innumerevoli problemi da risolvere che le tempreranno il carattere. Tutti bevono in continuazione il tè rosso in grandi quantità, è servito e sorseggiato nelle circostanze più disparate: per rilassarsi, chiacchierare e pensare, con grande sollievo di tutti. Non sono da meno gli altri personaggi che nei vari romanzi si affacciano sulla porta dell’agenzia investigativa per chiedere aiuto, a loro il tè viene offerto per metterli a loro agio, come richiede la buona educazione del Botswana. Educazione, morale, tradizioni e consuetudini sono sempre presenti, come il tè!

Le indagini richiedono spostamenti che la rispettabilissima signora Ramotswe effettua col mitico furgoncino bianco tenuto in ordine dal suo compagno meccanico che è una persona speciale, come speciali sono gli animali e la vegetazione che la circondano, anche in città. Si legge: “Sola nella sua casa di Zebra Drive, la signora Ramotswe si svegliò, come spesso le capitava, nel cuore della notte, quando la città tace, perfettamente silenziosa; il momento di massimo rischio per i topi e altre minuscole creature, quello in cui i cobra e i mamba vanno a caccia senza far rumore.” Oppure “C’erano aiuole rigogliose di gigli tropicali, grovigli di bouganville e, folti praticelli di erba kikuyu…” L’ombra è garantita da grandi baobab o macchie di acacie spinose. Ci sono formicai che… e cani cacciatori di serpenti. E in tutte le pagine… l’aria africana è penetrata con la sua finissima sabbia proveniente dal deserto del kalahari.

Lo scorrere delle indagini è parallelo allo scorrere della frescura del mattino, all’incombere della tremenda calura. E tremende sono anche le realtà della povertà, delle malattie e delle sofferenze che in queste pagine ci arrivano intrecciate a personaggi che noi stiamo immaginando grazie alla scrittura e paradossalmente ci sembrano più vere di quelle riportate delle cronache, con statistiche e numeri concreti.

Per abitudine, per quanto riguarda i libri che non conosco, non leggo mai prima del romanzo chi è l’autore e tanto meno le recensioni o critiche per non esserne influenzata.
Per risolvere i casi che le si presentano la signora Precious Ramotswe è stata dotata dal suo autore di : sensibilità, attenzione, capacità di deduzione e un pizzico di ingenuità. E’ conoscitrice del mondo femminile e maschile, tanto da farmi credere che l’autore del romanzo che stavo leggendo fosse femmina. Naturalmente ci sono molte altre raffinatezze in questi romanzi di Alexander McCall Smith, che si direbbero all’acqua di rosa, invece secondo me… Ma lascio a voi il piacere di scoprirlo.

2

Scrivendo il racconto: “La voce nel tempo”, mi è venuto naturale far vestire i panni della maestra alla Signora Majellaro Pia. Donna dolcissima che negli anni cinquanta, fino al termine delle elementari ha insegnato, seguito e amato le bambine della 2° A. Pensando a lei, avevo scritto pagine su pagine, e quando le ho rilette ho pensato a quello che ci spiegava: “Mentre scrivete non dilungatevi troppo, ma non scrivetemi nemmeno l’elenco della spesa, rileggete spesso il titolo del tema e… per piacere sforzatevi di trovare dei verbi che non siano solo: dire e fare. A cinquant’anni di distanza, evidentemente suggestionata da quello che stavo rileggendo, i suoi suggerimenti mi hanno costretta a ridimensionare quello che avevo già scritto su di lei. Il soggetto del tema era: la bambina che sentiva una voce e la sua maestra non poteva occupare così tante pagine. Presentando il mio primo libro: “La quinta barca è Magica” Una signora del pubblico mi ha chiesto quale fosse stata la cosa più difficile nello scrivere il libro. Il silenzio che è seguito credo abbia imbarazzato un po’ tutti. La mia risposta sarebbe sembrava strana? ma era proprio così: la cosa più difficile nello scrivere il libro era stata cancellare, cancellare frasi, periodi e pagine intere. Per il libro “Strettamente personale” non è stato diverso, così delle diverse pagine che parlavano della maestra, dopo un lungo lavoro ne è rimasto un cammeo che spero le renda giustizia. E se così non fosse vorrei aggiungere qui di seguito un breve ricordo. La 2° A , da quando è arrivata lei non è più stata la stessa. Non so se allora, noi bambine ne fossimo consapevoli, quello di cui eravamo certe era che la nostra nuova maestra fosse speciale.Ventotto bambine che per lo più abitavano in cascine e parlavano il dialetto milanese oppure erano immigrate del veneto o del meridione ma tutte in chiesa rispondevano in latino al sacerdote che celebrava la S. Messa. Non sapevano far di conto ma già recitavano le tabelline a memoria. Negli anni cinquanta una scolaresca di bambine era a digiuno di quasi tutti i saperi e lei, la nostra maestra ha cominciato dalla pulizia delle nostre mani, unghie comprese: tutte le mattine controllava che fossero ben pulite. Questa era stata la prima lezione e come tutte le altre che seguirono furono di una leggerezza incredibile. Mai che avesse alzato il tono della voce e tanto meno le mani su di noi (come usava allora). Mai che ci castigasse. Mai che ci facesse vivere i nostri errori con angoscia, anzi, formava dei gruppi di lavoro (diceva lei), così c’era il gruppo di chi sbagliava le doppie, di chi ancora non aveva capito come funzionasse la gn di gnomo e la ghi e la ghe. Il gruppo che si esercitava con le maiuscole e quello molto numeroso che aveva grosse difficoltà a capire quando la a fosse o non fosse voce del verbo avere. L’ h era un rebus per molte di noi e lei… è genialmente partita da quello che sapevamo: il dialetto, trasformando il: “Ta ghè fam?” in “Tu hai fame? Tutte le volte che in dialetto incontravamo una ” ghè” corrispondeva alla voce del verbo avere. Partendo dal nostro dialetto ci ha portate all’italiano. E’ stato lo stesso per la matematica, non so se allora esistessero gli insiemi ma lei… con giochi, e disegni ha trasformato l’astrazione della matematica in un fatto concreto e palpabile. Aveva lottato per noi, con la direzione, per permetterci di scrivere con la penna a sfera nera anziché usare quel pennino che macchiava tutti i quaderni e ci era riuscita. Aveva lottato contro i pidocchi tenendoci costantemente sotto controllo. Aveva voluto andare a casa di tutte noi per conoscere personalmente i nostri genitori e l’ambiente dove vivevamo. Ha fatto di tutto, persino cambiato disposizione dei banchi che anziché presentarsi a file di due occupavano tutta l’aula con dei semicerchi. Sulla cattedra una panciuta caraffa di peltro sfoggiava giornalmente fiori di campo che noi bambine raccoglievamo per lei. In quell’aula così accogliente, così a misura di bambine le sue lezioni erano una continua scoperta, tutto appariva fantastico, persino quegli schifosi bruchi che sistemati su di un banco tenuto isolato mangiavano le foglie di gelso diventavano interessanti perché poi avrebbero prodotti il filo di seta! Ci ha insegnato a ripiegare la carta in modo da ottenere un bicchiere perfettamente a tenuta perché spiegava: “Ognuna di voi deve bere dal proprio bicchiere. L’igiene, lo avevamo capito subito era un suo punto fermo e forse ne avevamo bisogno! Nei successi anni passati con lei abbiamo festeggiato nel 1961 i cento anni dell’unità d’Italia, esplorato il cinquecento, piantato alberi nel cortile della scuola, marciato in palestra per sopperire al riscaldamento che non funzionava. Ricordi, tanti ricordi che ancora oggi mi sorprendono magari in bagno, quando il tappo del dentifricio mi sfugge di mano e… risento il suo consiglio: ” Non correte dietro al tappo cercando di prenderlo prima che finisca nel buco del lavandino, ma piuttosto tappate subito il buco con la mano. Oppure prendendo in mano un libro, quella frase:”Leggete bambine, leggete, sarà la vostra salvezza”. Come aveva ragione. Con i libri ho viaggiato, ho sognato, ho pianto, gioito… una fonte inesauribile! La nostra maestra… penso che un po’ tutte noi ne fossimo innamorate era: bella, brava, e ci voleva bene. Tutte noi bambine la vedevamo così. Oggi ho cinquantotto anni e lei per me non è mai cambiata. Grazie Signora Majellaro Pia, le voglio bene.