Un filo di panni stesi ci ha accolto al termine dei gradini che ci portavano sull’ampio spazio del teatro di Epidauro, proprio all’altezza del viso; liberata la visuale spostando un asciugamano, sono rimasta allibita: un accampamento di poche roulotte, tendina canadese e camioncino occupava lo spazio retrostante il palcoscenico e… c’era anche un carro funebre un po’ vecchiotto e mal messo, come tutto il resto. Dopo un attimo di sbigottimento nel quale ho pensato: gli attori forse dormono qui, ma… il carro funebre? Poi all’improvviso ho capito: Alcesti muore all’inizio della tragedia greca di Euripide, e noi eravamo nel pieno dell’arco scenico, spostando l’asciugamano che inizialmente ci copriva la visuale, era come se avessimo aperto il sipario di velluto del teatro, eravamo entrati direttamente nella tragedia. Con il nostro cuscino sotto braccio, ci siamo inerpicati nella cavea dell’anfiteatro cercando i numeri 10 e 11 relativi ai nostri biglietti, l’impresa sarebbe stata impossibile senza l’aiuto delle numerosissime maschere, fra l’altro gentilissime. Con notevole anticipo sull’inizio dello spettacolo, l’anfiteatro si presentava vuoto, imponente, e di un’eleganza essenziale. Le gradinate ricavate scavando sul lato ovest del monte Kynortio erano ancora illuminate e rimandavano un immagine di grandiosità. Poi, piano piano ( siga’ siga’) come si dice qui in Grecia, una miriade di spettatori hanno oscurato le gradinate coprendole di colori, di movimenti di voci e di zainetti. Vecchi, giovani, uomini, donne, bambini e bambine, coppie, singoli e gruppi di diverse nazionalità hanno occupato quasi totalmente i 15.000 posti di questo gioiello, dichiarato patrimonio dell’umanità.
Ridotta ai minimi termini, la tragedia “Alcesti” potrebbe suonare così: il dio Apollo è condannato da Zeus a servire come schiavo Admeto, re di Fere. Quando Apollo scoprirà che il suo re dovrà morire farà di tutto per evitarlo, e ottiene dalle Moire la sua vita a patto che qualcun altro muoia al posto suo. Non trovandosi volontari, la moglie Alcesti si sacrifica per lui. Poi Eracle, che passa di li durante le sue famose dodici fatiche, non capisce subito la portata della tragedia e quando in fine viene messo al corrente che il funerale appena svolto era quello della regina Alcesti, si pente della sua ilarità e delle sue bevute di vino, così cerca di rimediare e sempre tramite le Moire fa rivivere Alcesti.
Si è fatto buio, i tabelloni laterali illuminandosi indicano il titolo della tragedia e per tutta la durata dello spettacolo si susseguirà la traduzione simultanea in greco e in inglese, mentre gli attori reciteranno in tedesco! Panico, non lo sapevamo e noi conosciamo solo l’italiano e il francese, meno male che ci siamo letti prima la storia, ripetutamente, per capirla e gustarla meglio. Sul palcoscenico, da solo, il re di Fere recita, non ci sono scene, il costume è minimalista, non c’è musica e una sola luce lo illumina, ma… sono attentissima, pur non capendo nemmeno una parola mi rendo conto della disperazione di Admeto che perderà la sua sposa, è accasciato e piagnucola, poi si rialza e impreca camminando convulsamente, i toni, il volume cambiano in continuazione, si capisce che è un uomo distrutto. Intanto Thanos, la morte, attende nel carro funebre con la bara che sporge e i fari accesi. Prima di andarsene Alcesti saluta affettuosamente i figli che le sono corsi incontro sul palcoscenico uscendo di corsa dalla roulotte illuminata, sono vestiti di bianco e frenandosi ai piedi della madre sollevano un grosso polverone che illuminato dai proiettori sarà parte integrante per molte scene. Sulla stessa polvere Alceste ed Almeno, dopo che la domestica ha riaccompagnato i bimbi in roulotte si rotolano amandosi per l’ultima volta, poi lei balla accompagnata dalla musica e si dirige al carro funebre entrando nella bara. Un coro in sottofondo, e delle enormi lettere proiettate fino agli alberi dietro le roulotte immagino traducano una frase che avevo letto precedentemente: “il morto giace il vivo si dà pace”. A questo punto arriva il padre di Admeto con la valigia che porta il vestito per la morta, viene aggredito a male parole dal figlio che non gli perdona di non essersi sacrificato per lui e di conseguenza lo accusa della morte di Alcesti. Volano le uniche due sedie di plastica in scena a interpretare la rabbia e la violenza. Il padre non si scompone e gli risponde per le rime (non so cosa, ma cercherò di documentarmi) lo scontro generazionale è sempre interessante.
Irruento e chiassoso irrompe provvidenziale nella scena vuota l’ospite Eracle, reduce dalle sue famose 12 fatiche, equipaggiato di enorme zaino con attaccato di tutto, di cappellaccio da esploratore e scarponi da alpinista; ha un vocione tuonante e quello che dice fa ridere il pubblico. È accolto festosamente dalla famiglia ma notando comunque la tristezza del padrone di casa, gli viene detto, per non turbarlo che si è appena seppellita una persona di famiglia non consanguinea . Eracle continua così la sua allegria e le sue bevute, finché non viene messo al corrente dalla cameriera che è la moglie del re che è morta. Silenzio, Eracle si muove circospetto, sembra pentito e vuol rimediare, si libera dello zaino cammina piano, pensoso, poi bofonchia qualche frase fra sé e sé, ma se pure l’acustica è perfetta e si capisce chiaramente il suo discorso non è necessaria la traduzione: la mimica del volto e del corpo, il tono e il volume della voce, le pause interrogative e la gestualità, fanno di Eracle un attore perfetto, come del resto tutto il resto della compagnia. Di nuovo il coro e sul palcoscenico Admeto, con l’aiuto dei figli cerca maldestramente di distribuire su di uno stendino la biancheria bagnata, le roulotte sul fondo sono illuminate e Thanos cerca con una pila puntata nel motore, di trovare il motivo per cui non riesce a partire, è stato con la testa nel motore a trafficare, da quando Alcesti è entrata nella bara. E mentre il pubblico è concentrato sul bucato che viene steso, una grossa nuvola rossa avvolge il carro funebre, che solo inizialmente copre Eracle che sposta verso il palcoscenico una impalcatura coperta da un pesante drappo. Eracle aveva contattato le Moire ed era riuscito a riavere viva Alcesti che però non avrebbe parlato per altri tre giorni e ora era lì, al centro del palcoscenico davanti ad Admeto e gli offriva questa donna, che diceva di aver vinto al gioco delle carte. “ non se ne parla nemmeno” dice Admeto, “ho promesso ad Alcesti che non avrei avuto mai altra donna all’infuori di Lei”. Ma dai… non fare così… dalle solo un’occhiatina. E sotto il drappo Admeto scopre Alcesti.
Le chiamate del pubblico per applaudire gli attori sono state molte, intense e meritate anche da parte nostra che non abbiamo capito una sola parola. Merito senz’altro della magia del teatro.
Imbocchiamo a ritroso la strada per lasciare il teatro, mi giro e con noi una marea di gente ondeggia in discesa e penso agli antichi Greci che per così tanti anni hanno calpestato gli stessi gradini e forse come me hanno pensato alle inevitabili considerazioni e dubbi di questa tragedia: Thanos, la morte,che è accomodante ma implacabile nell’esigere una vita, una qualsiasi, tanto lì lo sa che prima o poi toccherà a tutti. Molti di noi però si comportano come se dovessero vivere in eterno. Il granitico amore materno, che in questo caso fa difetto: Alcesti abbandona i figli, ma alle madri, da sempre si è chiesto troppo. Avere le conoscenze giuste: un ospite amico come Eracle che ti risolve i problemi non è da tutti averlo. Un padre solo, incapace di gestire i figli… e anche il bucato. E in fine sulla trama penso che molte donne oggi avrebbero da ridire: sacrificarsi e morire per amore, vincere una donna al gioco delle carte… più che ad una tragedia penserebbero ad una farsa, e poi spero che vorranno tenere presente che la tragedia in questione è stata scritta da Euripide nel 438 a.C. Che però, sommati ai nostri 2022 d.C. fanno 2460, ebbene dopo tutto questo tempo per alcuni uomini non è cambiato molto visto che considerano ancora le donne oggetti di loro proprietà.
Adesso però devo stare attenta a dove appoggio i piedi, questi gradini sono alti, alcuni sconnessi ed altri sbeccati. Ci avviamo all’immenso parcheggio, saliamo in macchia per rientrare, ci perdiamo e ci mettiamo due ore anziché una, una vera tragedia greca. Due al prezzo di una.
Esordio di Patrizia Baccarin
“Ed, il mio carceriere” è il titolo del primo romanzo che Patrizia Baccarini pubblica, e sin dalle prime pagine emerge una scrittura fluida e pulita, capace di rendere elegante anche il movimento di un piccolo trattore al lavoro. La trama, dall’andamento incalzante e con vari colpi di scena ti rapisce fino alle ultime pagine. Ma sono le descrizioni dei vari personaggi, a partire dai protagonisti: Prudencia e Ed, e poi man mano tutti gli altri che con il loro carattere e le varie sfaccettature e personalità, determinano la ricchezza di questo bel romanzo. Al di là della trama, che lascerò scoprire ai lettori, questa intricata storia è un giardino dove cogliere riflessioni e pensieri, dubbi e determinazione, un giardino dove niente è scontato e tutto va conquistato. Ho colto anche molta poesia, che spunta da luoghi e panorami dove la protagonista si muove suo malgrado per districarsi dalle difficoltà. Panorami che Patrizia Baccarin pennella con dovizia di particolari, con il suo bel modo di scrivere, attingendo alla passione e all’amore che è il fondamento di questo romanzo. Complimenti Patrizia, proprio un bell’esordio e auguri per i prossimi romanzi.
Impressioni di viaggio
LA PARTENZA
Abbiamo cominciato bene il viaggio, la nostra pasticceria Belli di Cunardo era finalmente aperta e il caffè, se pur all’aperto era ottimo come sempre. Ci è sembrato di buon auspicio, poi risalendo in macchina e controllando il telefonino ho letto con molto piacere gli auguri di buon viaggio di molti amici. Sono le 9 del mattino di domenica 30 maggio, siamo partiti dal nostro piccolo borgo un’oretta fa e quella nostalgia nel lasciare casa è già passata. Il viaggio prosegue un po’ col nuvolo, un po’ col sole, ripercorriamo la solita strada, quell’unica strada che in questo periodo di pandemia, ci fa volare in Brianza da nostra nipote. Poi un salto dai fratelli, ma tutto in giornata e di corsa perché c’è anche il coprifuoco. La libertà era ancora sbocconcellata, fra zona arancione e zona gialla, libertà provvisoria e malata, con mascherina e senza contatti. Sempre una libertà agognata ed evanescente, come se al posto della promessa di un buon pranzo arrivasse: atteso, profumato, invitante e buono, un piccolo assaggio di antipasto, insufficiente a saziarti. Una libertà spicciola, di poco conto che abbiamo cercato di sfruttare al massimo. Si, la solita strada dal febbraio del 2020. Ma oggi è diverso, oggi proseguiamo e ho l’impressione che faremo una scorpacciata di immagini nuove dal sapore antico che ci ridaranno pienezza di spirito.
IL VIAGGIO
Imbocchiamo la Milano Bologna. Mai stata così attenta al panorama, come una voglia di non sorvolare su niente, capisci l’ indifferenza dei tempi migliori, scruti attentamente per non perderti particolari, apprezzi i covoni affiancati tra di loro e lasciati ad asciugare nei prati tagliati e già dorati. Poi quel prato verde smeraldo illuminato dal sole, quasi irreale la sua lucentezza, in contrasto con il verde scuro del prato confinante. Una scacchiera di verdi diversi, di terre scure appena arate, su di loro le nuvole lanciano senza alcuna regola geometrica le loro ombre tondeggianti e allungate, scurendone qua e là piccole porzioni. Di vedetta, cipressi a gruppetti di quattro o cinque o disposti in fila a delimitare crinali e confini. La pioggia dei giorni scorsi ha tolto ogni pulviscolo e su tutto prevale la limpidezza dei colori. Ho l’impressione che con un paesaggio del genere Joan Mirò sarebbe andato a nozze.
RINNOVATA LIBERTA’
All’altezza di Fiorenzuola sorpassiamo una fila interminabile di motociclisti, tutti indistintamente vestiti di nero, chi soli, chi in coppia, viaggiano affiancati ed alternati, la postura dei guidatori e delle guidatrici è classica: braccia aperte a stringere il manubrio. Il passeggero invece o è aggrappato a chi guida o si regge al sellino con entrambe le mani. Quando li abbiamo raggiunti l’ultimo di loro portava una pettorina arancione con la scritta “servizio”. Occupano tutta la corsia di destra e procedono calmi, sicché anche il rombo dei motori è adeguato alla velocità, la fila era talmente lunga che ho avuto modo di pensare che anche loro si stessero godendo quella rinnovata libertà, senza fracasso, senza esibizionismo, calmi e rilassati sui loro motoroni, col le loro donne e i loro uomini, con la voglia di viaggiare all’aperto, con la voglia di libertà, la stessa che sento anch’io, e anche se viaggio in macchina mi sento accomunata a loro, abbasso il finestrino e raggiunto il primo motociclista della fila, che indossa anche lui la pettorina arancione, lo saluto, immaginando così di salutarli tutti, lui, girandosi verso di me sorride. Ho avuto l’impressione che anche la sua mano si sia mossa in un saluto impercettibile, senza lasciare il manubrio.
ANCONA
Il sovraccarico di immagini, impressioni e pensieri mi inducono a dedurre di essere in viaggio da almeno due giorni, la realtà è ben diversa e solo dopo alcune ore di viaggio mi sento stanca e la voglia di sonnecchiare mi raggiunge, complice anche il susseguirsi ipnotico di filari di alberi da frutta. Non mancheranno le varie soste per caffè, gas auto e pipì, nel parcheggio dell’autogrill i passerotti, per niente intimoriti becchettano le briciole e ci saltellano attorno per recuperare anche le nostre. Siamo in prossimità di Ancona, è il terzo anno che ci imbarchiamo dal suo porto. La prima volta, come al solito siamo arrivati al check-in con notevole anticipo, ma in biglietteria ci hanno sollecitato di sbrigarci perché la nave stava salpano, ma come, ci siamo detti io e mio marito, partenza alle 19, sono le 17… guardiamo l’orario sul biglietto che conferma la partenza alle ore 17! Ma come è potuto succedere? Un piccolo ragionamento e ne siamo venuti a capo: il biglietto acquistato in dicembre perché scontato nel giorno del Black Friday era rimasto nei documenti senza più attirare la nostra attenzione fino a quel momento. Fra dicembre e maggio l’orario della partenza era passato, nella nostra fantasia, dalle ore 17 alle 7 di sera per fissarsi poi di conseguenza alle 19. Per cui la prima partenza da Ancona lo abbiamo vissuto in fretta e furia, correndo in macchina verso l’imbarco, fra una rotonda e un rettilineo, siamo saliti al volo sulla motonave che subito dopo è salpata verso la Grecia. La seconda volta da Ancona, dopo aver controllato per mille volte l’orario del biglietto, arriviamo comunque con due ore di anticipo, è il primo di luglio del 2020, siamo in piena pandemia e la Grecia a fissato questa data per accogliere i turisti provenienti dall’Italia, penso che tutti gli italiani fossero lì. Non mi va di raccontare la bolgia, il caldo e quelle terribili 5 ore di fila, ma l’angoscia della paura del contagio è durata per i seguenti 15 giorni, fino a che abbiamo capito di non essere stati contagiati da nessuno. Ancona? Il porto di Ancona? lo abbiamo solo intravisto, una porta Romana, mi pare, un po’ alta con una gradinata davanti. Questo è il terzo anno: l’orario del biglietto è chiaro, la data della partenza dovrebbe essere una partenza intelligente, c’è il risultato del tampone molecolare eseguito 72 ore prima, ma soprattutto c’è una curiosità nuova per Ancona. Qualche mese fa, un lunedì sera sul canale 54 di Rai Storia ho seguito un documentario condotto dallo storico Sergio Sparapani, anconetano doc, è stata una vera sorpresa: sarà stato l’amore con cui ha raccontato la sua città, sarà stata la storia ultra millenaria di Ancona, i suoi monumenti antichi, il museo archeologico, insomma quella porta Romana con la gradinata davanti che io avevo definita un po’ alta, per lo storico è l’ arco di Traiano, molto slanciato. Ho seguito la trasmissione con molta curiosità ed ora non vedo l’ora di arrivare sul molo del porto di Ancona per ammirare con più calma e più consapevolezza questo Arco trionfale che in prospettiva perfetta si vede anche dall’arco Clementino e, per chiudere la visuale, in cima al colle Guasco troneggia il Duomo, dedicato a S. Ciriaco. Se tutto ciò non lo avessi visto prima in TV, forse non me ne sarei mai accorta. Per il Museo Archeologico e tutto il resto bisognerebbe prendersi almeno una giornata prima dell’imbarco. Ma le cose cambiano sempre e… non so se l’anno prossimo partiremo ancora da Ancona. Ma certamente l’aver conosciuto un nuovo pezzetto d’Italia mi ha dato non solo l’impressione, ma anche la certezza di appartenere a uno splendido paese.
VERSO LA GRECIA
Il traghetto Florencia è già attraccato al molo, sembra piccolo ma i camion che ne escono, non finiscono mai e alla fine la sua linea di galleggiamento che prima era immersa nel mare ora affiora con evidenza. Tocca a noi, ora, salire a bordo, le macchine in coda sono veramente poche e i marinai ci guidano a gesti sul ponte scoperto, di solito ci fanno parcheggiare nella pancia della nave dove il rumore è assordante, il caldo è insopportabile, la puzza e la mancanza di aria è terribile, in più la confusione è totale: portiere spalancate, bagagliai aperti, motori di auto ancora accesi, e una moltitudine di persone che zizagano cariche di borse e di zaini fra una macchina e l’altra per raggiungere le scale che porteranno alla reception. Noi, come gli altri andiamo all’arrembaggio per conquistarci la chiave della camera, fra un passeggino e un disabile, tra borsoni e bambini, tra cani al guinzaglio e gabbie di gatti. Mi ci vuole sempre un po’ di tempo per raccapezzarmi: prendere dalla macchina la borsa da viaggio, la borsa con le cibarie e l’acqua, le giacche se la sera vogliamo uscire sul ponte, insomma come al solito siamo carichi come somari. Questa volta va meglio sembra una gita sul battello del lago, la macchina all’aperto e un sacco di spazio libero, ma vista la pandemia ci dirigiamo in cabina per uscirne solo la mattina seguente per prendere un cappuccino al bar. Ma anche da lì scappiamo subito: i camionisti greci fumano alla grande, come se niente fosse. Sul ponte esterno i viaggiatori girovagano, telefonano, degli hippie settantenni fanno crocchio, altri osservano e fotografano la costa Greca già in vista, io approfitto per fare ginnastica su di una panchina di legno sul ponte più alto dove non c’è quasi nessuno. È strana questa traversata: il piccolo traghetto è molto ben curato e pulito, c’è odore di disinfettante dappertutto, il personale è gentile e disponibile, il mare è calmo e il vento a favore. Mi sarebbe piaciuto che questa volta ci fosse con noi nostra nipote. Mi ricordo perfettamente il suo sguardo angosciato di qualche anno fa, nella pancia del traghetto Splendid: è scesa di macchina e si è guardata in torno con sgomento, non era mai stata su un traghetto e noi glielo lo avevamo descritto con ampie sale piene di divani e il bar, ristorante e self-service, negozi, sale Giochi, e sala con pianoforte nonché cinema e piscina esterna. Mi sono avvicinata a lei e gridando un po’ perché il rumore era fortissimo l’ho rassicurata spiegandole che quello dove ci trovavamo era solo il garage, sopra avrebbe trovato tutto diverso e con aria condizionata. Lei, in seguito avrebbe chiamato quel traghetto: Il Carciofus del mare, a ricordo di quella prima e pessima impressione.
IL CANTIERE
Entrare in cantiere in macchina è oramai una consuetudine, il più delle volte sospiro sconsolata e penso: ecco signora Leoni, qui cominciano le sue ferie. Già prima di arrivarci, sulla stradina che percorriamo per raggiungerlo gli scossoni in macchina causati dalle voragini che la costellano, mettono a dura prova le mie vertebre cervicali. Scendendo dalla macchina c’è vento, per forza siamo al mare ma la sua vista è ostruita da centinaia di barche sollevate da terra e appoggiate a invasature che le rendono innaturalmente immobili e quasi irraggiungibili, se il cantiere non fornisse delle lunghe scale per arrivare al pozzetto di ognuna di loro, queste barche sono talmente vicine le une alle altre che sotto questo intrico di carene si forma una fitta ombra che sarebbe anche piacevole se il vento non sollevasse un polverone da farti lacrimare gli occhi. Lo stesso cantiere visto dal mare, a un paio di miglia dalla terra sembra un immenso bosco di soli tronchi secchi: centinaia e centinaia di alberi di barche riempiono compatti l’orizzonte, si ha l’impressione di un panorama extraterrestre. Il cantiere non è un posto per signorine eleganti, nemmeno per signorine normali, è un vero regno di maci, meglio se con un poco di pancia, meglio se con barba da tagliare, l’ abbigliamento è diciamo casual, meglio se macchiato di vernice. Lo si vede arrampicato in testa d’albero, o per metà immerso nei motori o alle prese con una centralina elettrica, ama disporsi a crocchio con i suoi simili per discutere di baderne, prese a mare, e cinghie dell’alternatore che non si riescono ad allineare. Avvitano, svitano, carteggiano, verniciano, puliscono con l’idropulitrice, armano le loro barche e controllano che gli anodi sacrificali non siano consumati. Sono tutti super esperti ma i furgoncini di meccanici ed elettricisti non mancano mai in cantiere. Come non mancano mai gatti famelici e affamati, gazze che rubano il cibo dei gatti e cani che cercano di fare altrettanto, c’è sempre un gran movimento di animali anche attorno alle enormi pattumiere. Le giornate passano frenetiche e verso sera avviene la trasformazione dei maci del cantiere, dopo la doccia sono tutti puliti, sbarbati e profumati, scendono dalle alte scale appoggiate alle loro barche con calzoncini in tinta con la t-shirt, sembrano la pubblicità del Martini: già abbronzati col pullover sulle spalle e un’ aria da lupi di mare che la sanno lunga. Di donne in cantiere se ne vedono pochine sono per lo più all’interno delle imbarcazione a pulire e sistemare, quando scendono dalle alte scale, si destreggiano fra tavole di legno, catene e àncore penzolanti, a terra ci sono buchi con prese d’acqua a cui attaccare le canne, una vera gincana fra pericoli, non mancano improvvise cascate d’acqua dagli ombrinali delle barche, pozze di olio da raggirare o retromarce di macchine da scansare. Se proprio tutto va bene, rumori improvvisi e violenti fanno trasalire e miasmi di diluenti e vernici le assalgono. Lasciamo perdere le condizioni dei bagni e non parliamo nemmeno di una ben che minima comodità. All’occorrenza non mancano di aiutare i loro compagni, lo fanno, ma ne farebbero volentieri a meno. Infatti molte arrivano in cantiere a lavori terminati o si fanno venire a prendere in aeroporto prima del varo oppure fanno il part-time alloggiando in albergo la sera e lavorando in cantiere di giorno. Ho l’impressione che le donne facciano tutto questo per amore dei loro uomini e del mare, altrimenti non si spiegherebbe tutto questo gran tramestio di disagi e fatiche varie. Certo ci sono cantieri e cantieri, in alcuni ci sono ristoranti e negozi e elettricisti e meccanici sono messi a disposizione (a pagamento) ma… non sono cantieri adatti ai nostri maci che vogliono farsi i lavori da soli. Solo la sera, quando l’officina del cantiere è chiusa e i trapani tacciono, quando gli effluvi delle vernici si sono diluite nell’aria, quando il sole si ritira e il cantiere sembra svuotarsi, solo allora spuntano lievi nel cielo le stelle e la luna si riflette nel mare ricamandolo con fili d’argento che danzano a pelo d’acqua. È solo allora che anche le donne del cantiere si materializzano e le vediamo aggirarsi al buio, indossano gonne lunghe, e orecchini pendenti, ben truccate e profumate, come i loro maci, pronti per una meritata cena al ristorante. Ho l’impressione che l’arte culinaria abbia un notevole peso per i frequentatori dei cantieri.
21 Marzo 2020
Gino Corcione autore prolifico
La ricompensa
Un bel regalo di Natale
C’È POCO DA RIDERE
Cassilda uragano mediterraneo
Il ticchettio della pioggia sulla barca quasi mi emoziona, così lieve, delicato, proprio la calma dopo la tempesta, e pensare che solo 4 ore fa una signora tedesca mi affidava il suo zaino con gli effetti personali, era certa che la sua barca sarebbe affondata perché l’ ancora aveva mollato e le raffiche la spingevano verso le rocce in balia delle onde. E sì, anche le onde in porto, perché il vento aveva girato, e loro, gonfie di schiuma e potenza sono entrate prepotentemente. Se per i due giorni precedenti, i vari equipaggi delle barche ormeggiate al molo di Mitika avevano tenuto testa al ciclone Medicane, ora sarebbe stato molto più difficile, ma non lo sapevano, credevano che il peggio fosse passato e anche a noi è piaciuto illuderci.
Lo sapevamo che sarebbe arrivato, abbiamo valutato se cambiare porto e fatte le nostre considerazioni avevamo valutato che l’ancora, più i 50 metri di catena, sarebbero stati più che sufficienti per una buona tenuta, il porto è ben protetto e già due anni fa quasi nella stessa posizione avevamo preso 73 nodi di vento. Insomma eravamo tranquilli anche se già dalla notte di mercoledì a causa del gran vento e dello sfregare dei parabordi non eravamo riusciti a dormire. Giovedì siamo andati a letto prestissimo, alle 20 perché le previsioni davano peggioramento già dall’ una di venerdì.
Dal diario di bordo di Felicità
Giovedì 17-9-2020 Mitika
È l’una di notte, è impossibile dormire, balliamo tanto che i parabordi saltano all’interno del passo avanti della barca che vibra frenetica sulla catena dell’ancora, pur non formandosi mare in porto è il vento forte che ci spinge verso il molo. È tutto un correre per star dietro a cime e parabordi, sul molo gli uomini gridano, le donne aiutano, tutti hanno i loro problemi con questo ribollire di barche, i motori sono accesi per aiutare le ancore a contrastare il vento contrario, per fortuna non piove più ma tutto è ancora grondante. In cabina le ante dei mobiletti sbattono, le fermo con lo scotch, la Moka nel lavandino cade, ma il caffè è salvo nel thermos, butto la parte inferiore della tenda divisoria che ondeggia sulla dinette e incastro il bicchierino del dentifricio, tutto usando una mano sola, l’altra mi serve per tenermi aggrappata e non cadere. Non posso fare molto per aiutare Enrico. Ricomincia a piovere, all’improvviso la passerella ha un violento movimento in avanti, la sua cima è finita nell’elica del motore: motore in folle, marcia in dietro e con uno strattone Enrico recupera la cima tutta spelacchiata dall’elica del motore, col furore del vento era finita in mare. Ricomincia a piovere e a tutto l’ululare del vento si aggiunge lo scrosciare dell’acqua, sul molo le luci si spengono, è saltata la corrente. È come se mancando la luce ti mancasse anche l’aria, è veramente buio e tutto è più difficile. Un’ancora non tiene più, la barca sta andando a scogli, tutti cercano di aiutare, anche Enrico salta sul molo. Le raffiche arrivano ad intervalli e sembrava che prima non ci fosse vento, poi passano, ma il loro susseguirsi si accumula generando panico. Non c’è un attimo di pace, raffica, le barche si scontrano fra di loro, bisogna tenersi ben stretti per non cadere. Le tre del mattino, raffica, paura, guardo le previsioni del vento, fino alle 8 non migliorerà. Raffica, paura, è un crescendo di frastuono: acqua vento, CRAC, la barca vicino alla nostra, la cui ancora non tiene più, ci monta sopra con la sua falchetta distruggendo due candelieri, il crac che sento all’interno della barca è terribile, esco, la pioggia battente che mi ha subito colpito la faccia sembra una manciata di sassolini, sistemo i parabordi, raffica, mi aggrappo mentre Enrico sistema le cime, scoppia un parabordo, il vicino di barca urla e piange. Ora sono due le barche senza ancora, entrambi appoggiate sulla nostra dritta, con questo carico non so se la nostra ancora terrà.
Raffica, la nostra ancora tiene, sono le 3,45, durerà fino alle 8, il tempo non passa, raffica, paura, e io scrivo, non so fare altro. Alle sei del mattino aspetto con ansia le 8 perché il ciclone è previsto si debba spostare a sud est. È un continuo guardare l’ora ma il tempo non passa e le raffiche aumentano di intensità. Sono le sei, controllo per la milionesima volta le previsioni sulla App di Windy: Il ciclone, anziché spostarsi a sud, come previsto, ci raggiunge diretto a est: potente, ululante come una bestia feroce che porta rumori agghiaccianti, quasi muggitti, mi spaventano, non li conosco, non li ho mai sentiti prima. Distrutta più che altro dallo stress, visto che sta facendo tutto Enrico, mi butto sulla dinette e chiudo gli occhi…vedo, luminoso il movimento del vento che ruota e raggiunge il ciclone. Devo smetterla di guardare in continuazione Windy.
Venerdì 18-9-2020 Mitika
Ma ci ricasco e alle 8 ho la conferma che il ciclone si sposterà a sud nelle prime ore del pomeriggio. Le telefonate degli amici c’è lo confermano, aspettiamo fiduciosi, e pur continuando a piovere, verso le 15 il vento cala all’improvviso. Uno stano silenzio dopo tre giorni di incessante frastuono. La barca della Signora tedesca non è affondata e lei sorridente reclama il suo prezioso zaino. Sono certa che se non ci fosse stato di mezzo il corona virus, ci saremmo abbracciate e baciate.
Sabato 19-9-2020 Mitika
C’ è poco vento e non piove più, il cielo è grigio ma degli squarci di azzurro fanno ben sperare, un azzurro particolare, molto bello, quello del mare, del cielo e della bandiera della Grecia. Domani salperemo per……….